La degenerazione  dei partiti e le riforme

Ormai è diventata famosa la definizione che Fabrizio Barca ha dato del Pd romano: “Un partito cattivo ma anche pericoloso e dannoso”. Questa fama è destinata ad espandersi all’inverosimile. Perché la caratteristica di essere al tempo stesso “cattivo”, “pericoloso” e “dannoso” non è solo del Partito Democratico di Roma. Calza al pennello per tutte le altre formazioni politiche che continuano ad essere, almeno formalmente, strutturate come i tradizionali partiti del passato. Finita la partecipazione popolare, che era legata alle ideologie ormai sempre più evaporate e ad uno spirito di appartenenza ormai del tutto tramontato, sono rimasti solo gli interessi personali che si aggregano in piccoli e grandi gruppi di potere con lo scopo di conquistare bottini sempre più ricchi e consistenti attraverso l’occupazione sistematica degli apparati politici ed amministrativi dello Stato.

Chi celebra oggi il ventennale di Mani Pulite dovrebbe considerare che tra gli effetti di quella “rivoluzione giudiziaria” c’è anche questa drammatica degenerazione della vita pubblica nazionale. Capire gli errori dovrebbe aiutare a non ripeterli. Ma pretendere che gli eredi ed i continuatori di quella stagione di falsa rivoluzione lo facciano è del tutto illusorio. Per cui diventa più utile sottolineare come il vertice del Pd, che si appresta a discutere dell’ultima versione della nuova legge elettorale, dovrebbe partire proprio dalla considerazione dello stato di degenerazione del proprio e degli altri partiti prima di esprimersi definitivamente sul sistema di rappresentanza voluto da Matteo Renzi.

Fino ad ora i vertici del Pd, in gran parte imitati da quelli delle altre forze politiche, hanno cercato di nascondere la degenerazione coprendola con la trovata delle primarie. Sembrava che con questa formula salvifica si fosse assicurata la volontà popolare e risolto ogni problema di assenza di qualsiasi forma di vitalità democratica all’interno dei partiti. Poi si è scoperto che le primarie, così come ogni elezione comunale e regionale dove esistono sempre le preferenze, non eliminano ma fanno addirittura trionfare i piccoli ed i grandi gruppi di potere che hanno l’obiettivo di conquistare i bottini assicurati dalla politica e dalla amministrazione. E allora? Solo nominati dall’alto non solo nelle elezioni nazionali ma anche in quelle locali per evitare la piaga del malaffare provocato dagli interessi dei gruppi famelici e delle lobby prevaricatrici?

Sicuramente non è questa la soluzione da adottare in un Paese democratico. Ma incominciare a regolare per legge il meccanismo delle primarie introducendo il metodo democratico all’interno dei partiti ed assicurando rappresentanza trasparente alle forze intermedie può essere un primo passo importante. A cui non può non seguire un altro passo addirittura decisivo. Quello di rivedere integralmente il sistema delle autonomie locali che, dopo essersi espanso nella Prima Repubblica a causa del localismo di marca cattolica e comunista, ha raggiunto l’apice della devastazione dello Stato con il federalismo mal concepito e pessimamente realizzato nella Seconda. Basterebbe passare dallo stato delle regioni a quello dei comuni e delle grandi aree metropolitane. E creare un sistema elettorale unico per l’intero territorio nazionale che preveda il giusto equilibrio tra nominati di forte prestigio personale e rappresentanti di un popolo partecipante e non di tesserati fasulli.

La rivoluzione, quella vera, sarebbe questa.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:19