Corte di Strasburgo, sentenza e paradosso

“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Così recita l’articolo 3 della Convenzione dell’Unione Europea sui Diritti dell’Uomo. E sulla base di questo articolo il nostro Paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo per le violenze subìte da un manifestante che si trovava nella Diaz durante il pestaggio della polizia del 2001 e per l’assenza di un’adeguata legge contro la tortura nella nostra legislazione.

La sentenza della Corte europea è stata salutata con soddisfazione da quanti non hanno mai smesso di denunciare il comportamento delle forze dell’ordine durante le drammatiche giornate del G8 di Genova. Ma ha dato vita ad un singolare paradosso. Perché ha messo in luce come proprio chi ha più contestato le torture perpetuate dalla polizia alla Diaz non ha mai speso una sola parola per denunciare la totale assenza nel nostro Paese di norme contro l’altro tipo di tortura, quella che si manifesta con trattamenti inumani o degradanti compiuti dallo Stato ai danni dei cittadini.

Questo paradosso è pericoloso. Perché non riguarda solo i difensori degli antagonisti, degli anarchici, degli extraparlamentari, degli autonomi o di chiunque sia stato a favore della violenza di popolo contro la violenza di Stato. Ma si estende ad una larga fetta della società italiana che non ha dubbi e perplessità di sorta nel protestare contro la tortura della polizia, ma non ha neppure una sola esitazione nel chiedere contemporaneamente pene e comportamenti inumani, degradanti ed incivili, cioè l’applicazione della tortura, nei confronti degli accusati di reati considerati emergenziali.

Questa parte dell’opinione pubblica nazionale, espressione di una cultura giustizialista divenuta purtroppo egemone negli ultimi decenni, rischia di dirottare lo stimolo provocato dalla sentenza della Corte europea verso l’introduzione di un reato di tortura limitato ai soli casi di eccesso di violenza da parte delle forze dell’ordine.

Invece il richiamo che viene da Strasburgo dovrebbe spingere ad una riflessione diversa e ad una azione legislativa molto più ampia. La riflessione è che nel nostro Paese la tortura, quella che non solo colpisce fisicamente ma che degrada, umilia e schiaccia la dignità dell’uomo, esiste da tempo immemorabile ed è la conseguenza inevitabile delle diverse legislazioni di natura emergenziale applicate nel corso degli anni. I comportamenti condannati dalla Corte europea sono stati la regola nella lotta al terrorismo degli anni Settanta e Ottanta, sono stati gli strumenti con cui è stata condotta e continua ad essere portata avanti la lotta alla mafia, sono stati le conseguenze della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite e si sono trasformati progressivamente nella prassi iniziale di qualsiasi inchiesta giudiziaria.

Riconoscere che l’uso della tortura, intesa nel senso più ampio indicato dai giudici europei, sia connaturata con le diverse legislazioni emergenziali italiane non è un modo per contestare la lotta al terrorismo, alla mafia ed alla corruzione. È solo un inevitabile punto di partenza per compiere un bilancio dell’efficacia delle legislazioni emergenziali (sicuramente positivo quella contro il terrorismo ma di segno contrario quelle contro mafia e corruzione) e, soprattutto, un’attenta analisi di come si possa e si debbano condurre azioni più efficaci contro ogni genere di crimine nel rispetto e nella tutela dei diritti degli individui.

Da Strasburgo, in sostanza, è giunta la richiesta di riflettere sulle pene inutilmente afflittive, sulla carcerazione preventiva troppo spesso usata come strumento d’indagine piuttosto che come misura cautelare, sulla gogna mediatica che uccide moralmente e socialmente gli innocenti oltre che ad affliggere in maniera disumana i colpevoli, sulle carceri che con tre metri quadrati di spazio per ogni detenuto non sono luogo di detenzione ma di tormento. Questa riflessione è indispensabile. Perché la tortura a cui siamo ormai assuefatti non è più tollerabile. Non solo dai cittadini italiani, anche dall’Europa!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:15