Morire per Palmira

Si può morire per difendere le antiche rovine di Palmira? La città che sorge nel cuore della Siria è stata conquistata dai combattenti dello Stato Islamico. L’esercito regolare siriano di Bashar al-Assad è stato messo in fuga. Quelli che non sono riusciti a scappare sono stati catturati dai miliziani del sedicente califfato e messi a morte nei modi più cruenti. Le cronache raccontano di corpi decapitati e di teste che rotolano per le strade, di donne stuprate e rese schiave, di devastazioni e violenze di ogni tipo. E di sangue che scorre a fiumi.

Di fronte a questa escalation del male assoluto l’Occidente resta inerme. Con la medesima flemma di uno spettatore ad un incontro di tennis sul prato di Wimbledon, si dice “preoccupato”. Agisce a distanza, dal cielo, ma si guarda bene dall’entrare in contatto diretto, viso-a-viso, col suo nemico più ostinato. Palmira è la porta su Damasco. Averla conquistata per l’Is significa spianarsi la strada per la presa di tutta la Siria. Se ciò dovesse avvenire nei prossimi giorni sarebbe una tragedia dagli sviluppi imprevedibili. Per gli jihadisti sarebbe arrivare a ridosso del confine con Israele. Sarebbe puntare i cannoni sulla base navale di Tartus, dov’è ospitata la flotta navale russa. Per l’Occidente sarebbe l’evidenza formale della Terza guerra mondiale in atto. Tanto più che l’avanzata a Oriente, in Iraq, ha spinto l’Is alle porte di Bagdad e delle città sante dello sciismo, Karbala e Najaf, per difendere le quali l’Iran è pronto a intervenire con il proprio esercito.

Se questo è la scenario apocalittico che si para davanti ai nostri occhi, perché allora preoccuparsi delle antiche pietre di Palmira? Sappiamo bene che gli jihadisti, nella loro furia iconoclasta, proveranno a raderle al suolo. Per loro rappresentano il simbolo vivente dell’infedeltà al Dio unico dei credenti. Per noi sono la traccia indelebile di una civiltà che ci appartiene. Un tempo quelle pietre erano pubblici edifici, luoghi di culto e di commercio creati dai nostri antenati romani a presidio della loro potenza.

La città di Palmira, porta d’Oriente, perla del deserto, stazione di transito sulla “via della seta”, era già ricca e fiorente quando in Galilea il figlio di Dio predicava il suo verbo. Palmira è la memoria della nostra cultura. Cultura come insieme di opere, di comportamenti e di abitudini morali, intellettuali, estetiche di un’entità organica chiamata “popolo”. Cultura come genitrice di civiltà. L’individuo-persona è la sua cultura. La memoria degli avi che vive anche nelle architetture del passato rende testimonianza alle generazioni che verranno. E se è vero, almeno per noi lo è, che la cultura definisce l’uomo-in-quanto-uomo, battersi per difenderla vuol dire salvare un’identità oggi in grave pericolo.

Ecco perché, di là dalla pietà per le vite spezzate, è necessario permettere che l’antica Palmira viva. Le menti sottili che stanno dietro ai tagliagole lo hanno compreso perfettamente. Tocca a noi ora, non domani o dopodomani, comprenderlo. La coalizione occidentale, accantonando ogni ingiustificata timidezza, provveda a schiacciare la testa al serpente jihadista che, strisciando tra le sabbie del deserto, sta uccidendo i nemici con la forza del suo morso e la potenza del suo veleno. È bene dunque ficcarselo in testa: non esistono compromessi praticabili. Solo l’annientamento fisico, radicale, di questa peste del terzo millennio ci restituirà la speranza del futuro.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:25