La Scuola di Atene

Romano Prodi sentenzia: “Diciamo la verità, il risultato del referendum greco in queste proporzioni non se lo aspettava nessuno”. Ma parli per lui. È da un pezzo che raccontiamo ai nostri lettori quanto la partita greca sia stata perfettamente preparata da Alexis Tispras perché ci si potesse attendere un risultato diverso, anche nelle dimensioni.

Il premier greco, comunque si giudichino le sue idee, su un punto ha avuto ragione: riuscire a politicizzare il confronto con i vertici dell’Unione europea uscendo dalle secche di una trattativa arenatasi sulle secche dell’austerità finanziaria. La sfida ingaggiata dal greco è stata enormemente facilitata dall’atteggiamento, a mezza strada tra l’arroganza e l’ottusità, mostrato dalla signora Angela Merkel a nome e per conto dell’establishment del suo Paese. I tedeschi - è il caso di usare il plurale - volevano impartire al ribelle di Atene una lezione esemplare anche per gli altri partner dell’“Europa debole”. Volevano suonarle e sono stati suonati. Tutti loro, nessuno escluso, affetti dal grave morbo dell’autoreferenzialità, non hanno fatto i conti con fattori avulsi dalle rigide meccaniche dei rapporti di forza nell’Eurozona. Non hanno, ad esempio, considerato a dovere la variabile del sentimento identitario greco, che è fortissimo, e che avrebbe avuto un peso determinante nella scelta referendaria per il “no” alle politiche dell’austerity.

Anche la storia ha fatto capolino nelle urne di domenica scorsa. Il fatto che l’attacco più forte provenisse proprio dai tedeschi ha fatto sì che riprendessero corpo antichi fantasmi mai del tutto cancellati dalla memoria del popolo greco. È stato impressionante ascoltare la dichiarazione di una povera donna, molto anziana, in evidente stato d’indigenza che al microfono di una tivù straniera dichiarava lapidaria: “I nazisti settant’anni fa mi hanno portato via la famiglia, oggi vogliono distruggere l’avvenire dei miei nipoti. Non posso permetterlo”. Dopo il “no” greco l’Ue, se non vuole finire in frantumi, deve ripensarsi. Soprattutto deve essere messa in discussione la pretesa di Berlino di dettare la linea alla quale tutti gli altri devono adattarsi. Ciò che è stato fatto in questi anni di austerity è sbagliato. I pessimi dati macroeconomici dell’Eurozona stanno lì a dimostrarlo. Oggi si tornerà al tavolo del negoziato con uno Tsipras vincitore che non intende stravincere. Non è un caso se, dopo la proclamazione dei risultati, abbia indotto il suo ministro dell’Economia, il palestrato Yanis Varoufakis, alle dimissioni. Un gesto di distensione verso Bruxelles che, se possibile, spinge ancor più nell’angolo i suoi più ostinati detrattori. Nonostante i tedeschi, di destra e di sinistra, continuino in queste ore a proferire minacce all’indirizzo del governo di Atene, la realtà è che loro malgrado saranno costretti a cedere perché un’ulteriore stretta alla gola di Tsipras materializzerebbe il rischio, incubo per alcuni, di uno spostamento ellenico nell’orbita di Mosca. Allora sì che sarebbe un terremoto dalle conseguenze incalcolabili.

Nelle prossime ore il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, dovrà riaprire i cordoni della borsa per ridare ossigeno al sistema bancario greco. Nel frattempo a Bruxelles si definirà l’accordo per la ristrutturazione del debito come chiede Tsipras per libare risorse fresche da investire sulle politiche di sviluppo economico. Non dovesse finire così, si spalancherebbe un baratro non per la Grecia ma per l’Europa, schiacciata fra difesa di regole sbagliate e insormontabili ragioni di geopolitica.

Il migliore auspicio che possiamo formulare a noi stessi è che dalla lezione di Atene riemerga un’Europa nuovamente polifonica in luogo della noiosa “cantata” per voce solista - quella della Merkel - e coro di accompagnamento. Sarebbe auspicabile che anche l’Italia dicesse la sua. A proposito, avete notizie di Matteo Renzi?

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 18:19