Dirigere il traffico di 7 guerre in Siria

All’Onu i due presidenti di Usa e Russia hanno compiuto una prima prova di dialogo sulla Siria. In teoria gli interessi delle due potenze dovrebbero convergere nella lotta comune contro l’Isis. In pratica, i due approcci al conflitto siriano e gli interessi in gioco sono quanto mai divergenti, così come sono quasi del tutto inconciliabili le visioni per un dopoguerra.

Il problema è il conflitto siriano, ormai fuori controllo e divenuto talmente intricato da non potersi neppure più definire come una guerra (al singolare), ma come una serie di guerre parallele. Occorre, dunque, esaminare quali lotte siano in corso, prima di vedere quali soluzioni siano possibili. La guerra civile siriana è scoppiata nel marzo del 2011 come ribellione di una maggioranza di siriani contro il regime di Assad e i due pilastri del potere: la setta minoritaria degli alawiti (di derivazione musulmana sciita) e l’esercito regolare. Quando anche l’esercito ha iniziato a dividersi al suo interno e altre forze esterne sono intervenute nel conflitto, il quadro si è notevolmente complicato. Attualmente, a quattro anni e mezzo dall’inizio dei combattimenti, si contano almeno sette guerre parallele.

La prima è quella di Assad per consolidare i territori ancora controllati dall’esercito regolare (la capitale Damasco, il confine con il Libano e la costa del Mediterraneo) e riconquistare il controllo sul resto del Paese. Assad ha ottenuto da subito l’appoggio dell’Iran, che ha inviato ufficiali, consiglieri e truppe Qods, oltre a convogliare in Siria gran parte delle milizie Hezbollah provenienti dal Libano.

La seconda è la guerra combattuta da milizie sunnite “moderate”, sostenute da Turchia e Qatar, per rovesciare il regime di Bashar al-Assad. Queste milizie, sempre meno moderate, sono ora in gran parte sotto il controllo ideologico dei Fratelli Musulmani.

La terza guerra è quella combattuta dall’Arabia Saudita, la cui causa talvolta coincide con quella di Turchia e Qatar e talvolta diverge. Da aprile si sta ingrandendo una coalizione di milizie jihadiste sunnite, l’Esercito della Conquista, che opera soprattutto nel Nordovest del Paese, che potrebbe (non è detto, perché non ci sono ancora sufficienti prove per affermarlo) essere sostenuto indirettamente da Riad. La quarta guerra, la più famosa, è quella combattuta dall’Isis, o Califfato, che mira alla creazione di un nuovo grande stato totalitario islamico sunnita in tutto il Medio Oriente, a partire dalla Siria orientale. Attualmente l’Isis controlla tutto l’Est e il centro della Siria ed è la fazione che vanta il dominio del territorio più vasto.

La quinta guerra è quella combattuta dai curdi, che mirano alla loro indipendenza, a partire dal consolidamento del controllo militare sul Nordest del Paese, scontrandosi soprattutto contro l’Isis, con cui confina. La sesta guerra è quella della coalizione formatasi nel settembre scorso contro l’Isis, di cui fanno parte Usa, Gran Bretagna, Australia (da questo mese) e paesi arabi quali Giordania, Emirati e Arabia Saudita. La Francia è intervenuta da questa settimana nello stesso conflitto, ma con un comando e un piano d’azione autonomi.

La settima guerra è combattuta sul Golan da Israele, per motivi di mera autodifesa, soprattutto contro Hezbollah (e dunque anche contro i regolari di Assad), soprattutto per impedire che il movimento armato sciita possa diventare troppo pericoloso, dotandosi anche di armi di distruzione di massa del regime siriano.

Questa suddivisione in sette guerre parallele del caos siriano è già una semplificazione estrema della situazione sul terreno, perché non tiene conto delle numerose schermaglie e massacri fra milizie sunnite, talvolta alleate e talvolta nemiche fra loro. E non tiene conto neppure della componente dei drusi, che controllano il Sud del Paese e sono semplicemente meno coinvolti nei combattimenti degli ultimi mesi. Serve però a comprendere che ciascuna parte in causa è contro le altre sei e ha obiettivi strategici incompatibili con le altre.

In questa situazione intricatissima, la Russia sta iniziando a intervenire al fianco di Assad e dell’Iran, con l’obiettivo di breve periodo di consolidare il territorio delle sue basi nel Mediterraneo, minacciate sempre più da vicino dall’Esercito della Conquista. Mosca si è coordinata con Israele, per evitare scontri fra le due forze armate, ma non è in vista (almeno per ora) alcuna comunanza di obiettivi: Israele continua a combattere contro gli sciiti (l’ultimo bombardamento risale appena all’altro ieri), cioè la parte sostenuta apertamente dal Cremlino. Anche il possibile coordinamento fra Usa e Russia sarà più che altro riducibile a una sorta di “direzione del traffico” fra le varie forze aeree, che operano tutte nello stesso spazio pur avendo obiettivi differenti. È molto più difficile, però, un accordo strategico, perché l’obiettivo finale russo è quello di difendere il regime di Assad, quello americano è di abbatterlo. L’unico interesse comune, per ora, è la lotta all’Isis, ma anche qui è difficile che i russi lo perseguano fino in fondo, perché le milizie del Califfato, a meno che non avanzino ulteriormente, non minacciano direttamente le basi russe mediterranee. È per ora quasi impossibile tracciare una road map per una pace in Siria. Il Paese è ormai talmente frammentato da ricordare il vecchio Libano degli anni Settanta e Ottanta, dove ogni singolo fazzoletto di territorio è controllato da un clan o da una fazione. Visti i rapporti di forza fra le parti in lotta, una vittoria di una di esse è impossibile. Nemmeno un massiccio intervento russo (in stile Afghanistan) al fianco di Assad permetterebbe al dittatore di pacificare il Paese. E nessuna delle fazioni in lotta contro il regime ha la forza militare sufficiente a rovesciare il dittatore e sconfiggere gli altri rivali.

L’unica soluzione pragmaticamente possibile è, a questo punto, la rinuncia all’unità nazionale della Siria e l’accettazione di una sua cantonalizzazione. Come si fece in Bosnia, quando si sconfisse la fazione più aggressiva (quella della Repubblica Serba di Pale) e si provvide alla creazione di una confederazione di tre Stati, di fatto indipendenti, anche in Siria, dopo un’eventuale sconfitta dell’Isis si potrebbe provvedere alla creazione di una confederazione di quattro Stati fra loro confederati, ma di fatto indipendenti: uno sciita-alawita (più piccolo, ma provvisto dello sbocco sul Mediterraneo), uno sunnita (più esteso, ma nell’entroterra), uno druso (nel Sudovest) e uno curdo (nel Nordest). Le attuali linee del fronte, grosso modo, coinciderebbero con i confini delle nuove entità. Si tratterebbe di una soluzione dura da accettare per tutte le parti in causa, ma forse l’unica in grado di sedare il conflitto e permettere una conferenza di pace. E soprattutto, sarebbe l’unica soluzione compatibile con la natura della società araba, ben poco incline a riconoscersi in un’identità nazionale (che non è mai esistita, neppure dopo quasi settant’anni di esistenza in vita della Siria), ma più propensa a riconoscere come legittimi i livelli di governo locali del clan e universali della religione.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12