Strani pensieri: da Scola a Mani Pulite

In morte del bravo regista (ma ancora più bravo come sceneggiatore) Ettore Scola, strani pensieri ci corrono in testa, come un da capo all’altro del rimuginio. Intanto, Ettore perché Scola è entrato nell’areopago dei registi la cui narrazione ha svolto un ruolo decisivo nel cinema inteso come specchio di un Paese, e poi, soprattutto, per la sua mai nascosta militanza nei comunisti.

Non vogliamo far nascere la prima qualità dell’autore di “Ci eravamo tanto amati” e de “La terrazza” alla seconda condizione politica, ma qualche riflessione ulteriore è d’obbligo. La vera qualità di Scola sta(va) nella sceneggiatura, basti pensare a film ormai leggendari come “Il sorpasso” e “I mostri”, diretti da Dino Risi, per afferrare la cifra di questi capolavori: la loro non politicità. Non tanto, o non soltanto perché Risi era un autore sideralmente lontano dalla politica, quanto perché il suo sceneggiatore preferito, Scola, continuava a rifarsi alle sue origini più vere di vignettista satirico del mitico “Marc’Aurelio” di Marchesi e Metz, cui, peraltro, deve le sue radici il nostro più grande regista, Federico Fellini.

Il quale, come Risi, si considerò sempre un apolitico, meglio, un apartitico, salendo su su per la vetta della sua fantasia creativa, arrivandone ai vertici con la constatazione che “le cose più vere sono quelle che ho inventato”. Allo stesso modo o quasi, noi siamo convinti che le cose più belle lasciateci dal giovane Scola, passato nel frattempo dal “Marc’Aurelio” al cinema, come gag man e come scrittore, vadano scovate in certe pellicole minori, in certi sprazzi, in talune battute, oggi ormai storiche, di cui il cinema dell’immenso Totò, sempre tacciato di “popolanità” dalla critica snob, cioè di sinistra, era pervaso, vedi “Tototarzan” con “Io Tarzan. lei Cheeta, tu bona!” indicando la bellona del momento.

Non c’era alcuna nebbia politica o politicante in quei “filmetti”, eppure Scola era sempre Scola, un comunista alla stregua del 90 per cento dei nostri uomini di cinema. La politica era però dietro l’angolo se non già al lavoro nella strutturazione dell’impianto generale della commedia all’italiana che, lentamente ma inesorabilmente, rielaborò e manipolò la storia del nostro dopoguerra per dir così neorealistico o “dei panni sporchi da lavare in famiglia” (Andreotti dixit, forse...) fino a realizzarne la personalizzazione con l’offerta dell’homo democristianus.

Questo mito ci restituiscono la maggior parte delle pellicole degli anni Sessanta con la maschera di Sordi e, a fianco, di Manfredi, più o meno consapevolmente attori di quella svolta dopo i Cinquanta degasperiani. La commedia all’italiana è la costruzione geniale e al tempo stessa perfida, di una mitologia e di un mito, appunto, tramite la potente arma cinematografica - come l’ebbe a definire a suo tempo un profetico ma irregimentatore Mussolini - con un’operazione da maghi: sottrarre al neorealismo la punta della freccia critica per innestarla nella lancia della narrazione rosea, della presa in giro, del racconto di tipi, tic, emblemi, figure e figurine riducibili al falso “moralista” da sagrestia e imbroglione, al “seduttore” da strapazzo, al “vedovo” con l’amante ecc. da cui lasciare trasparire l’humus in cui tali figure erano cresciute, il loro terreno di coltura, un mix di cattolicesimo filtrato dal comportamento democristianus.

Infine e non a caso negli anni Settanta, Ettore Scola trovò la sua consacrazione in “C’eravamo tanto amati” e “La terrazza” anche e soprattutto perché il “comunismo” prima sottotraccia si rivelò appieno. Non si vuole con questo sminuire la indubbia qualità dei due film, ma semplicemente ricordarne quella dimensione ideologica che si stava espandendo nell’apparato intellettuale, culturale, universitario e storico del Paese. E che va sotto il nome di egemonismo mutuandolo direttamente dal magistero di Gramsci, che di egemonia comunista se ne intendeva, eccome.

Talché possiamo tranquillamente affermare che la storia d’Italia, e non solo al cinema, è la storia della sinistra, scritta dalla sinistra, dalla sua impostazione e ispirazione secondo cui la resistenza fu tradita, il risorgimento una deprecabile conquista regia, il liberalismo un anticipo del regime fascista, il dopoguerra, ovvero dopo l’espulsione (elettorale) del Pci dal Governo, un regime corrotto, con un susseguirsi di tentativi di golpe, di stragi di Stato, di servizi deviati, tutto per impedire l’accesso al potere della parte sana del Paese. Sicché, anche con la salvifica “Mani pulite” osannata dai postcomunisti sottobraccio coi postfascisti (curiosamente gli sconfitti dalla storia), storici, giornalisti e cineasti hanno suonato la stessa musica.

Basti pensare che sulla mitica inchiesta del secolo, a parte le orrende fiction televisive viste fino ad ora, l’unica pellicola che la racconti, è spostata all’indietro di 2000 anni, ai tempi dei romani con De Sica e Boldi trasfiguranti i politici-senatori corrotti, e i magistrati-pm incorruttibili. Potenza della commedia all’italiana. Commedia o tragedia? Fate voi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:08