Il centrodestra e il   rompicapo Bertolaso

La campagna del centrodestra per le amministrative di primavera è partita male. Almeno a Roma. Dopo mesi di confusione, il trio Berlusconi-Salvini-Meloni ha trovato la quadra sul nome dell’ex-capo della Protezione civile. A prima vista quella di Guido Bertolaso si presenta come una buona candidatura: l’uomo ha fatto nella vita cose delle quali è difficile disconoscere il valore. Tuttavia, essere stato un eccellente dirigente pubblico non basta. Guidare Roma vuol dire proporre una visone del futuro della città che risponda ai bisogni e alle speranze di quei cittadini ai quali si chiede il voto. È naturale, quindi, che ci si aspetti dal rappresentante del centrodestra un progetto politico che tragga ispirazione dai valori della propria parte. Invece accade che, nelle prime uscite pubbliche dopo l’investitura, Bertolaso abbia detto cose che, francamente, lasciano perplessi.

Ora, va bene tutto ma proporsi all’elettorato di destra dichiarandosi convinto fan del centrosinistra è un po’ troppo. Per un elettore romano sarebbe perfino banale chiedergli: se i tuoi avversari sono così bravi come dici perché allora dovremmo votarti? Ciò che vogliono i cittadini è principalmente chiarezza. Sbaglia Silvio Berlusconi a sottovalutare questo aspetto del consenso. Il disgusto crescente verso la classe politica è motivato anche dalla confusione del quadro politico, che non consente di comprendere con certezza chi stia da una parte del campo e chi dall’altra. Il cittadino elettore, scottato dai recenti episodi di transfughismo parlamentare di cui il centrodestra in particolare è stato vittima, non vorrà correre il rischio che il suo voto funga da mezzo per traghettare l’ennesimo candidato che, una volta eletto, si accasi sulla sponda opposta.

È oltremodo ingiusto pensare che l’elettorato del centrodestra non abbia una propria cultura alla quale connettere un progetto politico organico di governo della città, ma sia solo un serbatoio acefalo dal quale attingere i consensi necessari alla vittoria. Fare il sindaco di una Capitale non è un obbligo imposto dal medico: chi si propone dovrebbe quanto meno avvertire la responsabilità di rappresentare un mondo che non si limita a manifestare bisogni primari ma nutre idee, custodisce sogni, coltiva speranze. Se quel mondo non lo si ritiene compatibile con la propria storia, nulla di male: l’importante è ammetterlo per tempo e farsi da parte. Le cronache dicono che Matteo Salvini stia ripensando la scelta di Bertolaso. Giorgia Meloni è alle prese con forti mal di pancia nel suo partito, che rischia di dividersi proprio sulla questione romana. Francesco Storace, che nella Capitale ha un importante seguito elettorale, ha deciso di scendere in campo anche per raccogliere lo scontento che sta montando a destra. Raffaele Fitto, convinto sostenitore del metodo delle primarie, a fronte dell’ostinazione berlusconiana a disprezzare questa modalità di selezione della classe politica, ha annunciato di voler appoggiare l’outsider Alfio Marchini. Gianfranco Fini, a proposito della candidatura di Bertolaso, evoca la maionese impazzita.

Ora, facendo quattro conti, se uno a uno i leader del centrodestra si sfilano, chi voterà Bertolaso? È probabile che, alla fine, il vecchio leone di Arcore la spunterà ma deve fare molta attenzione perché un candidato imposto dall’alto non necessariamente riesce a scaldare i cuori degli elettori. Il test di Roma avrà riverberi sul quadro politico nazionale, per cui una sconfitta sarebbe un colpo alle aspettative di ripresa del centrodestra difficilmente rimediabile. Non è un male consentirsi un supplemento d’istruttoria per individuare il profilo giusto da candidare al Campidoglio perché nulla potrebbe essere, in questo momento, più pericoloso che lasciarsi abbacinare dal miraggio di un tecnico aggiusta-tutto. Al mercato non si trovano ciliegie tutto l’anno, come non esistono uomini buoni per tutte le stagioni.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03