Prescrizione, l’inutile giro di vite repressivo

Ciò che colpisce non è che il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo critichi le titubanze del Governo nel promuovere leggi più severe per combattere la corruzione, a partire dall’aumento dei tempi per la prescrizione. Lo fa con coerenza da più di vent’anni e sarebbe singolare se tradisse la sua storia proprio ora che è arrivato al vertice dell’Anm. E non stupisce nemmeno che molti magistrati siano tornati a chiedere a gran voce l’applicazione della legislazione antimafia per meglio fronteggiare l’emergenza (che però secondo il Procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato, è fisiologica) dell’illegalità e del malaffare nella vita pubblica. Il loro mestiere è di reprimere i reati ed è normale che pretendano sempre più strumenti per svolgere al meglio la loro azione repressiva.

A colpire ed a stupire è la quasi totale assenza di una qualsiasi discussione sul giro di vite chiesto a gran voce dai magistrati. Le poche voci dissonanti vengono silenziate o ignorate. E per lisciare il pelo ad una opinione pubblica forgiata dal giustizialismo manettaro da cui dipendono le fortune di alcune forze politiche e di tanti media cartacei e televisivi, il Governo prepara una ennesima svolta repressiva all’insegna di un conformismo cupo e totalizzante.

Per combattere la corruzione, fisiologica o emergenziale che sia, serve sul serio il giro di vite giudiziario? Il tema della prescrizione è emblematico. Chi chiede che per i reati di corruzione venga portata ad oltre vent’anni allo scopo di debellare le lungaggini procedurali degli avvocati non tiene in alcun conto la circostanza che più del sessanta per cento delle prescrizioni scatta non nella fase processuale, dove gli avvocati hanno gli strumenti per rallentare le procedure, ma nella fase delle indagini preliminari, in cui i legali non possono che subire passivamente le iniziative dei pubblici ministeri. Ma perché la maggior parte delle prescrizioni scatta in questa fase? Semplice, perché la massa dei procedimenti che l’obbligatorietà dell’azione penale impone ai Pm di avviare è talmente grande che le Procure sono costrette a stabilire tacitamente quali fascicoli mettere in evidenza e seguire e quali passare in second’ordine e dimenticare. L’efficienza provoca di fatto la sospensione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Che, nata dall’esigenza di difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, è diventata la causa principale della inefficienza del sistema giudiziario italiano. Basterebbe che non il governo ma le stesse Procure potessero decidere annualmente quali filoni di reati perseguire e quali demandare ad organismi esterni. In questo modo non ci sarebbe alcun bisogno di puntare su un allungamento dei tempi della prescrizione, che rischia di sancire il principio “fine processo mai” e trasformare la giustizia in un istituto di pubblica vendetta perenne.

Il tema della prescrizione pone poi la questione generale se il giro di vite repressivo serva sul serio a combattere meglio la corruzione. Anche in questo caso la risposta è semplice. Se la legislazione emergenziale antimafia avesse raggiunto il suo scopo, nessuno potrebbe opporsi alla sua estensione alla corruzione. Ma così, purtroppo non è. E lo stesso vale per il giustizialismo giudiziario in atto da Mani Pulite ad oggi. Che non ha eliminato il malaffare se è vero che oggi il degrado nella vita pubblica ha raggiunto il massimo grado.

Non sarà allora, che la via giudiziaria non sia quella giusta per sradicare fenomeni che allignano e prosperano nelle strutture pubbliche elefantiache? E che a seguire questa strada si finisca col mettere in piedi uno di quei modelli di Stato autoritario e repressivo in cui, insieme alla prevaricazione, la corruzione è il tratto dominante?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04