Da Trani la verità sull’estate dello spread

Il tempo è galantuomo. Ci sono voluti anni ma, per accertare cosa accadde nell’annus horribilis 2011, qualcosa si muove. Ci fu un golpe bianco che spodestò il legittimo Governo di centrodestra votato dalla maggioranza degli italiani. Ci furono mandanti esterni che cospirarono e quinte colonne che si resero complici dei disegni eversivi di poteri stranieri e nostrani. E ci furono, nei palazzi romani, sponde istituzionali importanti che favorirono quei progetti antidemocratici. Allora non occorsero i carri armati e le pistolettate per fare fuori Silvio Berlusconi e i suoi ministri, ma si ricorse alla nuova arma di distruzione di massa forgiata nelle fucine dell’ultimo capitalismo della globalizzazione finanziaria. L’arma letale si chiama “spread” e permette a chi la maneggia, tramite i canali della speculazione finanziaria, di aggredire la stabilità economica e politica di un Paese.

L’Italia, fino alla primavera del 2011, non era alla bancarotta come invece la grande stampa complice dei golpisti ha per anni raccontato. I fondamentali del sistema economico e della finanza pubblica erano in ordine. Lo attestavano i dati forniti dalle istituzioni europee sui saldi del 2010. Poi arrivò l’impresa libica, che non fu guerra alla Libia ma all’Italia. Oggi, la verità viene lentamente a galla: si trattò di un proditorio attacco deciso dalla Francia dell’allora presidente Nicolas Sárközy, forte del sostegno britannico e statunitense, agli interessi economici e geopolitici italiani che si andavano consolidando nella Libia di Gheddafi. La defenestrazione del satrapo di Tripoli, amico di Roma, provocò il crollo del peso dell’Italia sulla scena internazionale. Mettere l’intero Paese in ginocchio dopo che per anni aveva rappresentato una spina nel fianco dell’asse franco-germanico egemone in Europa fu l’ovvia conseguenza di una partita giocata sul terreno politico prima che militare. Fu allora che i conti pubblici italiani saltarono d’improvviso per effetto di oscure manovre speculative sui titoli di Stato.

In questi giorni la Procura di Trani ha avviato un’indagine per fare luce sul comportamento della Deutsche Bank di Francoforte sul Meno, che mise inopinatamente in vendita i titoli di Stato italiani, per un valore di 7 miliardi di euro, che aveva in pancia. L’improvvisa manovra scatenò il panico degli investitori, provocando una reazione a catena sui mercati finanziari. Da lì lo spread cominciò a schizzare alle stelle. L’ipotesi di reato che i magistrati di Trani contestano al gruppo dirigente all’epoca insediato ai vertici della Banca tedesca è di manipolazione del mercato. Per l’accusa i banchieri germanici, nel mentre fornivano notizie rassicuranti sulla sostenibilità del debito sovrano italiano, preparavano occultamente la massiccia vendita dei titoli posseduti.

Intanto, sono iniziate le perquisizioni presso la sede italiana della Deutsche Bank e alcuni testimoni sono già stati ascoltati. In casi del genere si è soliti rifugiarsi nell’abusato ritornello: la giustizia faccia il suo corso. Il suo corso un corno! L’auspicio è che i magistrati pugliesi trovino la forza per andare in fondo alla vicenda. Il bersaglio grosso da colpire non sono i quattro passacarte che eseguirono gli ordini ricevuti, ma i burattinai che dalle placide sponde della Sprea tirarono i fili dell’operazione. Non sarà facile per gli inquirenti andare avanti, perché se esiste una giustizia “a orologeria” di cui abbiamo spesso discettato è pur vero che esiste una politica “a orologeria”. Sarà pura coincidenza la dichiarazione romana della signora Angela Merkel che tiene a dimostrare quanta vicinanza vi sia tra lei e il signor Matteo Renzi? Il nostro presidente del Consiglio risponda alla domanda: nel corso dei colloqui con la cancelliera tedesca si è parlato degli interessi investigativi degli inquirenti italiani sulla Deutsche Bank? Vorremmo saperlo ora e non leggerlo tra vent’anni sui libri di storia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:01