Amministrative 2016:   i casi Marchini-Parisi

Che il candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini, abbia opposto obiezione di coscienza alla (eventuale) celebrazione di un matrimonio gay all’indomani dell’approvazione delle “Unioni civili”, sembra quasi riportarci ai tempi dell’aborto e dei medici obiettori di coscienza. Sembra, ma con qualche distinzione e, soprattutto, con un’analisi del contesto attuale.

Marchini, cattolico, apostolico, romano, come si dice fra noi credenti che a Milano, invece, contempliamo il rito ambrosiano, è certamente in sintonia col suo elettorato ma, soprattutto, è stato in attento ascolto della giornata politica nella quale il governo di Renzi ha approvato con la fiducia la legge sulle unioni civili. Reazioni: giaculatorie al diapason dei politici di opposizione contro la decisione della fiducia subita come gesto impositivo cui gli autori del gesto rispondono, al contrario, in nome della chiarezza, cioè che “il Governo ci ha messo la faccia”. Ben altre giaculatorie, ancorché più sommesse ma di peso spirituale e politico ben maggiore, sono provenute da Oltretevere, pardon, dalla Cei, che è pur sempre la Cei, la potente entità cattolica rappresentante i Vescovi. E qui avanziamo, anche noi sommessamente, un appunto a proposito di questo loro intervento nei meriti di una legge dello Stato. Legittimo, si capisce, ma non consueto. Il fatto è che la Cei ha mosso le sue critiche in medias res, mentre si realizzava la legge, per non dire dei suoi aperti dissensi fin da prima. Un gesto, quello finale, che sta a significare come e qualmente il mondo operativo cattolico, l’associazione più potente e più immersa nell’universo della fede in Cristo (e nel Papa), non possa non impennarsi rispetto alla legge di uno Stato che colpisce al cuore uno dei capisaldi (la famiglia) del suo millenario insegnamento. Uno Stato con Premier un ex democristiano e dunque un cattolico più o meno praticante ma, soprattutto, un Paese la cui Capitale è anche la sede del rappresentante di Cristo sulla Terra. Sarebbe stato quanto meno surreale una Cei che rimanesse zitta zitta a leccarsi le ferite, e che ferite, inferte innanzitutto alla simbolicissima Roma.

Ora, anche per noi che non siamo pregiudizialmente ostili verso una legge che pure avrebbe avuto bisogno di qualche ritocco, l’atteggiamento di Alfio Marchini non è suonato affatto stonato, né ci è apparso così dirompente se non addirittura disobbediente nei confronti di una legge dello Stato. Se Marchini, che è già ora ufficiale di Stato civile, non se la sente di celebrare matrimoni che non rientrano nella sua tradizione religiosa, sarà sostituito da qualche altro volonteroso e laicissimo ufficiale, che di certo non manca e non mancherà. Il suo è un caso che rientra nel liberalissimo e fondamentale principio della libertà di coscienza. Ma è anche e soprattutto - e non ce ne voglia il simpatico e capace candidato Marchini - un gesto politico. Più specificamente: un gesto iscritto nella vicenda elettorale romana. Intendendo per elezioni uno dei momenti più alti della democrazia come partecipazione, come adesione alla visione di una città, alla sua identità, al suo benessere, alla sua crescita.

Diciamo che sarei rimasto stupito dell’opposto, così come non resto certamente colpito dall’eventuale atteggiamento “alla rovescia” del non meno simpatico candidato Roberto Giachetti. Via un caso, eccone un altro. Che riguarda Stefano Parisi, candidato sindaco di Milano in un’alleanza (di ottima tenuta, fino ad oggi) fra il Cavaliere, Salvini, Lupi e, se vinceranno il ricorso dopo la bocciatura della lista, quelli di La Russa. A proposito della quale bocciatura c’è da rimanere non poco basiti rispetto a prescrizioni interdittive sostanzialmente marginal-burocratiche nei confronti di un movimento “storico” e presente dal dopoguerra nella politica italiana e nel Consiglio comunale di Milano. Ma tant’è. Si dà il caso, appunto, che nella lista della Lega per un Consiglio di Zona vi sia un candidato definito “fascista e antisemita”. Il che ha non poco irritato l’ottimo Parisi e non soltanto per ragioni familiari quanto, soprattutto, per rispetto alle tradizioni democratiche di una città “antifascista nata - come recita una narrazione, spesso e con qualche enfasi di troppo - dalla Resistenza”.

La presa di posizione di Parisi è, non solo comprensibile, ma di grande dignità e responsabilità. Milano è definita anche una città illuminista e dunque tollerante. Se riandiamo indietro nei ricordi civici, troviamo non poche sorprese politiche nascoste negli archivi del Consiglio comunale. Fra cui spicca il nome, come consigliere comunale del Movimento sociale italiano di fine anni Sessanta, di Angelo Tarchi. Tarchi non soltanto era stato esponente di punta della Repubblica Sociale di Salò e fra gli estensori del Manifesto di Verona, ma era stato nominato ministro da Mussolini nel settore industriale, dove Tarchi cercò di applicare il suo (e del Duce) credo statalista avviando un deciso processo di nazionalizzazione delle industrie, peraltro malmesse in quel tornante tragico della guerra civile 1943-45. Mi colpiva molto quel personaggio dall’aria autorevole ma alla mano, con interventi ascoltati con attenzione in quell’aula solenne presieduta, allora, da un sindaco come Aldo Aniasi, già comandante partigiano. A volte abbandonava lo scranno, a volte rimaneva anche lui a sentirlo. Come si dice, è l’aria di Milano.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:59