Direzione Pd: il giorno dei lunghi coltelli

Oggi si tiene la direzione del Partito Democratico dopo il tonfo elettorale delle amministrative. Sarà uno psicodramma perché, questa volta, la minoranza non starà zitta: cercherà di processare Matteo Renzi e il renzismo. Il leader proverà a parare il colpo buttandola sul sociologico. Un accenno di questa linea di difesa lo svela Marianna Madia in un’intervista concessa a “La Repubblica”. La ministra, citando un passaggio dell’analisi di Romano Prodi sugli esiti elettorali, parla di ingiustizia crescente; sostiene che gli elettori ci hanno abbandonato perché…“il Pd è stato vissuto come ininfluente rispetto alla vita delle persone. Troppo ripiegato su se stesso, non ha capito il disagio delle periferie, della gente meno tutelata e più in difficoltà”. L’autocritica è forte e potrebbe funzionare da esca per i vecchi “ideologi” della minoranza i quali a uno scontro sugli organigrammi preferiscono di gran lunga un bel “Cineforum-segue- dibattito” come ai vecchi tempi della politica nelle sezioni del Partito Comunista Italiano. Se la direzione prendesse questa piega Renzi ne uscirebbe con qualche ammaccatura ma ancora intero.

Tuttavia, non gli sarà consentito eludere le criticità che maggiormente assillano gli oppositori interni: il rapporto intrecciato con i verdiniani e la rottura con la sinistra fuori dal Pd. Dallo loro, Pier Luigi Bersani e compagni, avranno l’evidenza dei fatti: quando si è uniti tra forze che provengono dalla stessa matrice ideale, come a Milano e a Cagliari, si vince, quando invece si tentano spericolati “avventurismi”, come a Napoli e a Cosenza, si perde in malo modo. È facile intuire quale sarà la parata di quarta dello schermidore Renzi: “con Verdini nessun patto, c’è solo una convergenza parlamentare sull’iter di approvazione della riforma costituzionale. Poi, che lui sia andato a sponsorizzare i nostri candidati non è dipeso da me”. Quindi, pratica chiusa.

Dubitiamo che la minoranza si possa accontentare di una scrollata di spalle a meno che il segretario non l’alletti con qualche offerta a cui è difficile resistere. Il tutto ruota su un ripensamento dell’Italicum e sull’approvazione di una legge ad hoc che garantisca un meccanismo elettivo per i membri del nuovo Senato. Per evitare contraccolpi nella maggioranza di governo Renzi non potrà mostrarsi troppo cedevole ai diktat degli avversari interni, ma potrebbe lanciargli un segnale d’intelligenza decidendo di rinviare il referendum di qualche settimana o mese. Una soluzione che gli consentirebbe di prendere tempo per negoziare visto che non è più tanto certo di avere la vittoria in tasca dei “sì”.

Intanto, per quietare lo scontento che serpeggia anche tra i suoi fedelissimi offrirà alcuni agnelli sacrificali, come si conviene in ogni rito purificatorio. Quali teste saranno servite? Probabilmente quelle di Debora Serracchiani, di Matteo Orfini e di Ernesto Carbone sono in testa alla lista. Loro personificano la sconfitta. In Friuli, dove la Serracchiani è governatrice, è stata una débâcle con la perdita di Trieste e di Pordenone. A Roma, si è celebrato il disastro del “Commissario” Orfini che non ne ha azzeccata una. Ernesto Carbone, inviato dal “Nazareno” a Napoli a fare da balia all’inconsistente candidata Valeria Valente, si è rivelato un guru pasticcione.

Nei piani renziani potrebbero esserci la nomina di un vicesegretario unico a cui affidare il mandato della ristrutturazione della macchina organizzativa e l’immissione, nell’ufficio di segreteria, di qualche esponente della minoranza interna che non gli sia troppo sgradito. Candidato al ruolo di vicario del segretario-premier sarebbe Lorenzo Guerini, ma su di lui pende la spada di Damocle dell’indagine ancora aperta sul malaffare al Comune di Lodi, di cui è stato sindaco. Un suo coinvolgimento nell’inchiesta sarebbe l’ennesima, micidiale, tegola sulla testa di Renzi. Comunque vada è certo che, da domani, nel Pd niente più sarà come prima.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:04