Di Parisi milanese, ma non solo

Come capita alla nascita di una “cosa nuova politica” c’è stato il detto e il non detto, e il fra le righe. Come vedremo. Eppure, la milanesità di fondo ha fatto aggio sul resto. Talché: “Ue’, questo vostro Parisi, l’è propri de Milan!”, mi hanno detto all’orecchio non pochi presenti al “MegaWatt”. Cosicché, all’irresistibile tendenza, soprattutto mediatica, di catalogare geograficamente un protagonista della politica, non è sfuggito Stefano Parisi nella sua convention milanese. Milanese, appunto, ma Parisi non è ambrosiano doc, anzi. E allora perché questo prevalere dei commenti proprio sulla specificità un po’ spuria, anche se inarrestabile? Perché il Parisi ascoltato nella città di Sant’Ambrogio è riuscito a combinare una narrazione nazionale con una fortissima e prevalente cadenza milanese. Cadenza politica, beninteso. Infatti nell’enorme sala-laboratorio, classica erede postindustriale, il racconto, anche per rispetto del simbolo in cui si teneva, si è svolto nel quadro di un pragmatismo ideale che soltanto Milano riesce a combinare nella sua apparente divaricazione concettuale.

Innanzitutto il “detto” o il fatto: la convention ha confermato e preso atto di un dato: la candidatura, più o meno “auto”, di Parisi alla leadership. Di chi, di che cosa? Si dice, e l’ha ripetuto l’interessato, del centrodestra, dell’alleanza ruotante intorno a Forza Italia, nel solco dell’eredità rianimata-rinnovata del Silvio Berlusconi 1994. Peccato che da Pontida un irrefrenabilmente antagonista, Matteo Salvini, abbia chiarito di poter fare a meno dell’alleanza d’antan, di poter fare anche da solo perché “a Milano c’erano le mummie”. Una battuta ad effetto, ma alla rovescia. Peccato per lui, innanzitutto, e per la Lega che - probabilmente - non ha ancora trovato il dopo Umberto Bossi, ché il pur movimentista Salvini, con le sue battutacce, non ultima quella imperdonabile - addirittura impensabile - su Ciampi, non può che rimanere due, tre se non quattro posizioni dietro Parisi. L’alleanza, che oggi non appare nemmeno così scontata ma pur sempre con una preponderante presenza di “moderati”, necessita di una leadership moderata, e quella di Salvini è tutto fuorché tale.

Quella di Parisi con la sua Opa lanciata sul centrodestra è, tuttavia, una scommessa. Lo è nella misura e nella dimensione nelle quali si collocano certe sue promesse, soprattutto quelle per dir così accennate, interlineari, esposte come incisi, lasciate cadere come intermezzi, anche se si trattava sempre di questioni grosse: l’Europa di oggi, la questione di una politica bisognosa di “esperti” (voleva dire di professionisti ma ha tirato il freno a mano), la polemica col grillismo con l’onestà come slogan e l’incapacità come risultato, il rapporto fra politica e magistratura con l’accenno non poco critico a Raffaele Cantone, il confronto con tutti, e quel riferimento al golpe che non c’è stato, anche perché, osserviamo “en passant”, l’eliminazione di Berlusconi è stata preparata e attuata a tavolino, scientificamente, lucidamente, come solo la sinistra sa fare.

Naturalmente l’insistenza a questa parte fra le righe dello speech parisiano non vuol essere che una provocazione benigna al loro sviluppo, ché, per il restante della sua prima uscita pubblica, le proposte riconfermano sostanzialmente il disegno di una rivoluzione liberale lasciata a metà da Berlusconi, se non tradita spesso anche dagli stessi colonnelli che oggi appaiono i più puntuti a criticare la new entry pretendendone una primazia “liberale” francamente fuori tempo massimo a fronte del poco fieno elettorale rimasto in cascina, per colpa anche loro.

Parisi è un leader che vuole infondere certezze, dopo anni di stasi e di declino. Ma è anche un politico che sa offrire ai suoi interlocutori una piattaforma larga, accessibile e non divisiva, persino con i non pochi amici e seguaci, molti del mondo di Confindustria come Marchetti e De Benedetti (fratello), che sono per i “Sì” al referendum. Il ché è già tanto in un Paese politico in preda a un populismo giustizialista che impone un linguaggio tanto violento quanto antipolitico, con Beppe Grillo che ringrazia. Il nome, la storia di Berlusconi restano, eccome. E Parisi ben sa che il problema è se il suo supporto incondizionato continuerà. Ma Parisi sa anche che questo non basta, che è importante ma non sufficiente per costruire, far crescere, imporre al centrodestra o come si chiamerà e, soprattutto, al Paese una candidatura, una leadership credibile, senza tuttavia e per ora, entrare in conflitto-competizione con l’establishment del centrodestra, avendo tra l’altro nel suo profilo l’idoneità a contrastare la figura dell’attuale Premier. E questa è la scommessa più impegnativa. La vincerà Parisi? Intanto, è l’unico che può farcela. E non è poco.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:02