Tritatutto in azione, sotto a chi tocca

Diciamocelo, almeno fra noi de “L’Opinione”, uno dei pochi fogli dalla voce garantista nell’assordante coro giustizialista: la giustizia non guarda in faccia a nessuno, è instancabile, continua a fare il suo corso, e pure di corsa, e in massa. E come potrebbe mancare il leggendario circo mediatico giudiziario? Così è (se vi pare), chioserebbe oggi Luigi Pirandello.

Non si fa in tempo a rallegrarsi per un’assoluzione eccellente arrivata con impressionante ritardo sul binario della giustizia, che ci piombano addosso altri treni che fischiano nella notte, con carichi pesanti e non meno eccellenti che si portano appresso. Carichi della giustizia, inchieste a tappeto, arresti a pioggia, o meglio, quello che si dice: retate. In concorrenza col terremoto che colpisce a tradimento il centro Italia, la retata sembra quasi auto-interpretarsi metaforicamente fra la terra che trema e la giustizia che fa tremare i palazzi del potere, come se una mano che non perdona si elevasse col suo gesto esemplare sulla malvagità connaturata all’uomo. Ma pure ai terremoti, si capisce.

Spiccano nel quadro sinottico massmediatico i nomi celebri, anzi i figli dei padri celebri, Giandomenico Monorchio e Giuseppe Lunardi, insieme - ovviamente - ai reati di massa, agli arrestati, agli indagati la cui cattura è di circa una trentina, non ho ancora capito bene se delle due inchieste o di una sola. Ma tanto a che serve? I nomi illustri di padri e figli sono entrati nella speciale “macchina ammazza-cattivi”, detta anche tritatutto, dalla quale non c’è nulla di buono da attendersi, sia perché nessuno, dico nessuno dei giornaloni ha messo in dubbio la colpevolezza dei malcapitati (figli e padri compresi) chiedendosi: “e se fossero innocenti?”; sia perché nel caso di un’assoluzione, ancorché lontana nel tempo, per la non sussistenza del fatto, il danno subìto è praticamente irreversibile: carriere stroncate, vite piegate, esistenze sconvolte, dolori e solitudine. Lo sappiamo, è così. Che fare?

Una scienziata di fama mondiale come Ilaria Capua, innocente vittima illustrissima di quel tritacarne, ha deciso di andarsene da questo Paese (almeno lei può permetterselo) ma, provocatoriamente, in una lettera a “Il Foglio” sempre attentissimo a questa esemplare vicenda, un arguto Giuliano Cazzola ha suggerito di fare leggere la “chiacchierata del quotidiano con la Capua nelle scuole, come si faceva una volta con i condannati a morte della Resistenza”. In un’altra lettera qualcuno ha avanzato la domanda delle domande: c’è stata un’indagine per individuare chi dei magistrati ha passato le informazioni ai giornalisti? Giustamente, direi anzi fatalmente, il buon Claudio Cerasa ha precisato che non solo nessuno chiederà scusa alla Capua, e figuriamoci se si chiederà conto delle carte uscite in anticipo dalla Procura tanto più che ai giudici dai rapporti disinvolti coi giornalisti non toccheranno alcune indagini, se non, ma è raro, promosse da altri magistrati. E il cerchio parrebbe chiudersi in una morsa senza scampo: c’è il tritatutto giudiziario, sotto a chi tocca, avanti un altro, la malagiustizia all’italiana è insonne.

Eppure c’è sempre qualcosa da fare, c’è ancora qualcuno - soprattutto fra le vittime più illustri di quell’infame calvario - che decide di ribellarsi a questo stato di cose. Si tratta del generale Mario Mori, uno dei nostri più abili e coraggiosi cacciatori di mafiosi nonché capo dei Servizi segreti, la cui storia “giudiziaria” (forse sarebbe più indicato il termine “persecutoria”) è scandita da accuse infamanti, come l’aiuto a quelli di Cosa Nostra risoltesi per ben due volte con due assoluzioni, ma dopo oltre dieci anni e nel silenzio pressoché generale dei mass media. Del resto anche il buon Calogero Mannino, indagato e triturato per anni e anni in merito alla trattativa Stato-Mafia, è stato prosciolto lo scorso anno benché non abbia ancora ricevuto il dispositivo della sentenza dopo un anno e più.

Ma non è questo ormai che conta. Ciò che conta, ciò che non può non avere il suo peso nel futuro di un Paese politico che vuole depurarsi dal veleno giustizialista, è la riapparizione dei Radicali, o di una parte di costoro - giacché non riusciamo sempre a tenere dietro ai loro “movimenti interni” - con un convegno a Roma organizzato dalla “Marianna”, movimento il cui motore garantista e radicale è certificato da Giovanni Negri che del Partito Radicale è stato ottimo e attivo segretario. Si riprende così il filo che la grande, dolorosa e tragica storia di Enzo Tortora aveva intessuto, e non soltanto con l’indimenticabile Marco Pannella giacché intorno alla sua opera di verità tanti socialisti, liberali laici, cattolici e normali cittadini si trovarono fianco a fianco. Sarà così anche adesso? Ottimismo della volontà o pessimismo della ragione?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03