Il Cavaliere fra Parisi,   Salvini e il “PdA”

Politica, partiti. Siamo sempre lì. Del resto è il nostro mestiere. Il “Partito degli Altri”, ovvero ciò che rimane del Partito Democratico qualora vincesse il partito di Renzi, è una felice espressione del nostro direttore che mi aiuta, più o meno direttamente, a capire le faccende interne del (cosiddetto) centrodestra. Cosiddetto non a caso ma tra parentesi per non dire di peggio. Si sa, mediaticamente si possono dire mille cose, ma il farle toccare ad altri, cioè alla Politica, benché l’ultimo scorcio di quest’epoca, fra i media e gli altri, il dominio dei primi alterna trionfi e sconfitte, la più clamorosa quella su Trump. Ma tornando a noi, più precisamente dalle parti di Silvio Berlusconi ultimissima versione polemica con Stefano Parisi, ciò che colpisce nei lanci di agenzia di ieri è la secca definizione di “scaricare” da parte del Cavaliere riferito a Stefano Parisi. L’avrebbe scaricato, secondo questi lanci, un Cavaliere seccatissimo per l’atteggiamento di Parisi nei confronti della Lega salviniana la quale, a sua volta, aveva lanciato un’Opa su Forza Italia, non si sa bene se a conoscenza dei disegni parisiani anti Lega o delle invidie interne a Forza Italia contro il manager battuto a Milano per pochi voti da Beppe Sala qualche mese fa.

E allora, direte voi? Allora bisogna pensare al Berlusconi post Nazareno e alle prese con un referendum che costringe non alla mediazione così cara al nostro, ma al nettissimo “di qua o di là”, per mettere meglio a fuoco l’ipotizzato contrasto di fondo che, tra l’altro, non riguarda un conflitto interno a Forza Italia, posto che Parisi non ne è un iscritto, anzi. Qual è dunque il problema di fondo scaturito dalla cogenza referendaria dello schierarsi referendario, per un’alleanza che, tra l’altro, è sempre più piena di spifferi e di divisioni contenutistiche come quella di centrodestra? È, appunto, l’alleanza che volenti o nolenti, sia il Cavaliere che Matteo Salvini che Giorgia Meloni e pure lo stesso Parisi, vogliono compattare per sperare di partecipare in forze alla battaglia per il “No”.

Semplice, vero? Mica tanto. Perché anche qui, volenti o nolenti, l’Opa lanciata da Salvini non è un “ballon d’essai”, una minaccia a parole, né tantomeno un qualsiasi grido di battaglia in una Lega decisamente malmessa. No, è un obbiettivo - sia pure temperato in fretta dalla Meloni superalleata di Salvini - che questa Lega è costretta a mantenere e, dunque, a realizzare. Altrimenti va indietro ancora, anche e soprattutto perché il suo repentino passaggio dal secessionismo-federalismo al nazionalismo filo Brexit e filo Trump, è spesso accolto male, oltre che dai militanti, dagli elettori fra cui non pochi piccoli e medi imprenditori del nord che chiudevano un occhio sulla Padania e sulle ampolle del “Dio Po”, ma li spalancano tutti e due non appena si vanno a toccare i capisaldi dello sviluppo del nostro settentrione che è e vuole restare, in tutti i sensi e modi, una parte decisiva, alla pari, se non a volte superiore, dell’Europa che lavora, produce, guadagna, costruisce, vende e compra e, soprattutto, vuole crescere.

Un conto dunque è una votazione su un referendum verso il cui “No”, ad essere un po’ più attenti, l’estrema prudenza è di non pochi amici ed elettori berlusconiani, un conto è il futuro del post-referendum, comunque ne sia il risultato. Al di là infatti della vittoria dell’uno o dell’altro schieramento, ciò che interessa al Cavaliere non è tanto o soltanto l’alleanza con Salvini ma, soprattutto, la tenuta del suo partito che non appare così in forma come prima. Da ciò la critica a Parisi la quale, ancorché fatta passare da interessati commentatori come una liquidazione di uno dei pochi volti nuovi e credibili di uno schieramento, è una sorta di freccia teleguidata da Arcore il cui target vero, autentico, immanente e pure un tantinello invadente e pure preoccupante, aveva, ha e avrà un nome: Matteo. Quale? Tutti e due, ma più quello di via Bellerio che di Palazzo Chigi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:03