Gli ebrei sovietici e la creazione della Storia

Trent’anni fa, il 6 dicembre 1987, più di 250mila persone manifestarono a Washington per chiedere al Cremlino di aprire le porte e lasciar emigrare gli ebrei sovietici. Da allora quel giorno è ricordato come “Freedom Sunday” (Domenica della Libertà), ed è stata la più grande manifestazione organizzata dagli ebrei nella storia degli Stati Uniti. Non fu una data scelta a caso.

Il giorno successivo, il Presidente Sovietico Mikhail Gorbaciov, si sarebbe incontrato alla Casa Bianca con il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Sarebbe stata la prima visita ufficiale del Presidente Sovietico negli Stati Uniti da quando prese il potere nel 1985, dopo la morte di Konstantin Chernenko.

Nel 1987, il numero di ebrei che avevano il permesso di lasciare l’Urss era bassissimo. Molti ebrei sovietici rimanevano confinati nei Gulag per via del loro attivismo politico, mentre le famiglie refusnik rimanevano per anni in uno stato di incertezza, al di là della Cortina di Ferro. Fui nominato coordinatore nazionale di Freedom Sunday, un gran privilegio. Fu un’esperienza esilarante e stimolante, non bastano le parole per descriverla, ma ci furono mille difficoltà.

Innanzitutto, l’annuncio della visita di Gorbaciov fu dato con appena 5 settimane di preavviso. In quelle cinque settimane la nostra squadra lavorò 24 ore al giorno, sette giorni a settimana per coordinare la miriade di dettagli necessari a pianificare l’evento.

In secondo luogo, il precedente primato di partecipazione ebraica ad una manifestazione a Washington era di 12-13mila persone, stabilito durante la manifestazione di supporto ad Israele nel difficile momento della guerra del giugno 1967. Il numero dei partecipanti sarebbe potuto essere insignificante, visto anche che la nostra manifestazione si sarebbe svolta in pieno inverno. E se fossero arrivati in pochi, avremmo potuto addirittura danneggiare la causa degli ebrei sovietici, mostrando al Cremlino che la questione era di scarso interesse.

Inoltre, malgrado ci fosse l’impressione che l’ebraismo sovietico fosse un movimento compatto, esistevano gravi fratture tra quelle che venivano chiamate – forse a torto - “classe dirigente” e “attivisti” (Io stesso fui arrestato due volte dalle autorità sovietiche, fui espulso dal Paese, mi fu vietato l’ingresso in Urss per via dei miei “precedenti politici”, e fui coinvolto nell’invio clandestino di migliaia di testi ebraici e di altro materiale agli ebrei sovietici: possibile che io non potessi essere considerato un “attivista” per via della mia collaborazione con un’organizzazione facente parte della “classe dirigente”, cioè l’American Jewish Committee?) Avremmo potuto mettere da parte le nostre differenze e marciare uniti, anche solo per un giorno?

Il ruolo di Natan Sharansky, leggendario prigioniero politico rinchiuso per nove anni nei campi sovietici prima di essere liberato nel 1986, fu fondamentale. Convinse gli organizzatori a mirare in alto. Disse che la manifestazione avrebbe dovuto essere massiccia, e che lo scopo era di radunare 250mila persone. Francamente, nessuno di noi aveva la minima idea di come arrivare a quel numero; ma Sharansky era uno che aveva affrontato il Kgb, non era un tipo facile da dissuadere. Furono 35 giorni straordinari. La reazione delle comunità ebraiche negli Stati Uniti, in Canada e in altri Paesi fu impressionante. Pian piano cominciarono ad arrivare comunicazioni in cui si confermava la presenza di un pullman o di un volo da una città o un campus universitario, che diventavano due, poi tre, quattro, cinque e così via. Si racconta anche che gli organizzatori ricevettero adesioni da parte di persone che dissero che sarebbe stata la loro prima partecipazione ad una manifestazione, ma che sentivano che qui si faceva la Storia, e volevano esserci. Molti ricordarono che durante l’Olocausto, la comunità ebraica americana fu di scarsa efficacia nella Seconda guerra mondiale, e che gli ebrei americani dovevano imparare dalla loro esperienza passata e far sentire la propria voce.

Alla fine sfilarono oltre 250mila persone tra cui, va ricordato, un gran numero di non-ebrei. Quel giorno faceva freddo ma c’era un bel sole. Non mancarono oratori importanti, tra cui l’allora vice presidente George H.W. Bush. Uno dei problemi principali fu addirittura quello di contenere il gran numero di leader civici e politici, di ex prigionieri politici sovietici, di refusnik ebrei, e di altri importanti personalità che salivano sul podio e che quasi sempre sforavano ben oltre i minuti concessi per parlare! I media diedero grande risalto all’evento. Fu trasmesso per radio da “Voice of America”, canale che arrivava nelle case dei sovietici, e scoprimmo in seguito che fu di grande supporto morale agli ebrei che ascoltavano dall’Urss. È un fatto documentato che quando il giorno successivo Reagan e Gorbaciov si incontrarono nell’Ufficio Ovale, il Presidente americano citò la nostra manifestazione, dicendo che era un’inequivocabile espressione dell’opinione pubblica, sollecitando il Presidente sovietico a prestare attenzione al messaggio.

E il resto, come si dice, è Storia. Si aprirono le porte e gli ebrei sovietici potettero lasciare il Paese in gran numero. Alla fine oltre un milione di ebrei russi si trasferirono in Israele, trasformando profondamente il Paese e rivitalizzando lo spirito Sionista.

Inaspettatamente, la diaspora tedesca divenne la comunità che crebbe a ritmo maggiore, con decine di migliaia di nuovi arrivi dall’area sovietica. Gli Stati Uniti ne accolsero centinaia di migliaia, al punto che oggi oltre il dieci per cento della comunità ebraica americana proviene dall’Unione Sovietica, vale a dire dal mio acronimo preferito, Fsu (Former Soviet Union – Ex Unione Sovietica, N.d.T.).

Questa storia non è solo importante di per sé, ma funge da esempio di cosa è possibile, oltre ogni probabilità, quando il popolo ebraico resta unito, persevera, e unisce le proprie forze con quelle di altre persone di buona volontà. È un peccato però che quest’evento non viene ricordato quasi mai, e raramente viene citato nelle sinagoghe, nelle scuole, nelle discussioni pubbliche.

Il 6 dicembre è una data da ricordare, e da celebrare per quello che è stato ottenuto, e soprattutto per ricordarci quel che è potenzialmente alla nostra portata.

(*) Ceo dell’American Jewish Committee

Aggiornato il 04 dicembre 2017 alle ore 21:05