Il Governo gioca la carta “Decreto dignità”

Dopo un mese di protagonismo incontrastato di Matteo Salvini, è il turno di Luigi Di Maio. Il capo politico dei Cinque Stelle debutta da super-ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico con il “Decreto dignità”. Si tratta di un pacchetto di misure destinate a contrastare criticità di diversa natura. Dalle modifiche alla disciplina del mercato del lavoro, alla lotta alla ludopatia, passando per l’alleggerimento degli strumenti di controllo fiscale e di misurazione dei redditi. Un condensato di buoni propositi che da soli potranno fare poco o nulla per risolvere i problemi per i quali sono stati concepiti ma che certamente serviranno a indicare la strada sulla quale l’odierno esecutivo intenderà muoversi nel prossimo futuro.

Come tutti gli atti destinati a produrre effetti nella sfera giuridico-patrimoniale delle persone, delle famiglie e delle imprese anche il “Decreto dignità” al suo esordio ha ricevuto molte critiche. Ciò che più non piace è la parte dedicata alle misure di contenimento al ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato. Nelle intenzioni del Governo c’è la volontà di porre un freno alla precarietà che genera povertà anche tra i lavoratori occupati e più in generale alimenta il disagio sociale. Chi si oppone al provvedimento denuncia che l’imposizione di vincoli più stringenti alle imprese invece di favorire nuova occupazione aumenti la disoccupazione. C’è del vero in tale obiezione. Se l’obiettivo del Governo è quello di incrementare il lavoro permanente non è con maggiori divieti che otterrà i suoi scopi.

Accanto alle norme che legano un po’ più le mani agli imprenditori sul fronte dei contratti di lavoro occorre che si varino misure compensative volte all’abbattimento di tasse e burocrazia. Soltanto offrendo alle imprese di affrancarsi da oneri inutili, quando non dannosi, le si aiuta a essere competitive. Per troppo tempo ha retto l’equazione: a maggiori tasse e obblighi burocratici, minor costo del lavoro. Se l’Esecutivo giallo-blu riuscisse a infrangere questo tabù consentendo agli imprenditori di realizzare profittabilità ma non a spese dei salari e delle condizioni dei lavoratori, avrebbe il merito di aver compiuto una scelta giusta e lungimirante. Se, al contrario, ci si fermerà a mettere più lacci e lacciuoli alle imprese pensando così di aver cucito una toppa sul disagio crescente generato dalle nuove forme di lavoro, sarà l’ennesimo drammatico bluff di un Governo gattopardesco uguale se non peggiore di quelli che l’hanno proceduto. Perciò si consiglia prudenza di giudizio e la concessione a questo Esecutivo di un tempo ragionevole per verificare se al primo atto adottato ne seguiranno altri di diverso segno.

C’è poi il segmento del “Decreto” che affronta il problema della delocalizzazione all’estero delle attività produttive assistite da contributi pubblici o aiuti di Stato. Diciamo subito che la stretta introdotta con la nuova norma, in linea di principio, non ci convince del tutto. Pensiamo che il fatto che si faccia decadere l’impresa, che decide di andarsene all’estero causando crisi occupazionale, dai benefici ricevuti sia giusto. Un’intrapresa economica che si fonda sulle sole risorse private dell’imprenditore o degli azionisti ha il diritto di trasmigrare dove crede che i suoi interessi siano più agevolmente conseguibili. Ma se quell’impresa o quell’imprenditore hanno ricevuto danari pubblici per mettere su in tutto o in parte la struttura aziendale o per acquistare beni strumentali necessari per la produzione quella medesima libertà di togliere le tende e andarsene altrove, garantita da un’economia di mercato d’impianto liberale, non gli possa essere concessa senza prevedere una qualche forma di risarcimento dell’interesse generale vulnerato. I contributi pubblici, di qualsiasi natura e fonte, sono sempre riconducibili a un prelievo dalla fiscalità generale, cioè dalle nostre tasche.

Il “Decreto” sancisce l’obbligo di restituzione delle somme ricevute sotto forma di aiuti di Stato nonché il pagamento a titolo di sanzioni pecuniarie di importi da due a quattro volte l’ammontare ricevuto, sotto qualsiasi forma, per quelle aziende che lasciano il territorio nazionale entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata o di ottenimento dei benefici fruiti. Preoccupa, però, il tempo stabilito per l’obbligatorietà della permanenza in Italia. Cinque anni potrebbero essere pochi. A coloro i quali lamentano il rischio che una normativa punitiva sulle delocalizzazioni in altri Paesi, anche collocati all’interno dell’Unione europea, spaventi gli investitori esteri andrebbe spiegato che se una grande impresa pensa di venire in Italia a saccheggiarne il patrimonio industriale a spese delle casse pubbliche per poi andarsene da insalutata ospite è cento volte meglio che si tenga lontana dal nostro territorio perché ai capitalisti di rapina e ai loro investimenti bluff, come si suole dire, abbiamo già dato. Va detto che la norma sanzionatoria prevista per le delocalizzazioni si applica anche alle imprese beneficiarie di aiuti che, nel periodo fissato dalla legge, riducano o abbattano i livelli occupazionali impiegati nelle attività interessate dai contributi pubblici. A chiosa, un commento sintetico sulla decisione di proibire la pubblicità del gioco d’azzardo: era ora!

Aggiornato il 04 luglio 2018 alle ore 13:31