Se c’è una qualche nostalgia per i vecchi partiti

Nel gran parlare che si fa e si farà a proposito del “Reddito di cittadinanza” (ma non solo, intendiamoci), il nostro Diaconale ha buttato fra le gambe di questa politica una parolina a dir poco indicativa e riassuntiva: barzelletta. Per carità, lungi da noi la generalizzazione o, tanto meno, la liquidazione della Polis così come viene coniugata di questi tempi. I quali, si sa, cambiano. Ma, proprio alla politica non cambia purtroppo quell’approccio superficiale e al tempo stesso minaccioso, quel sistema declinatorio a senso unico e ultimativo quasi che, dopo l’invenzione e l’uso industriale del termine ormai leggendario di “Casta”, il prima sia morto e sepolto e una croce con su scritto “una prece” inviti chiunque sia venuto dopo ad autodefinirsi come nuovo, antipartitico e dunque nuovissimo, che più nuovo non si può. Parce sepulto, si vorrebbe invece dire.

Poi prevale una sorta di acquiescenza in noi stessi, quasi come rimedio indispensabile all’assalto continuo da parte dei nuovissimi gestori & governanti della Polis che hanno capito fino in fondo il significato di “politica-spettacolo” tanto da completarlo in un ribaltamento ad usum delphini, cioè di loro stessi: la spettacolo della politica ad uso e consumo mediatico, soprattutto televisivo. Con tanto, si vorrebbe qui notare, di gara con relativo punteggio, di fremente attenzione all’audience e al suo responso quotidiano come si trattasse non solo di un’indicazione di gradimento, ma di una vera e propria valorizzazione santificante del politico in sé, della quasi definitiva conferma di un valore ad un tempo intrinseco ed erga omnes, una conquista storicamente esaudita e comunque invitante a procedere, a primeggiare, ad andare oltre. Ma andare dove?

L’impressione, dopo mezzo anno di governo a due, è che la politica-spettacolo abbia preso talmente la mano ai suoi audaci interpreti da realizzarsi in se stessa in una forma di modello auto-giustificativo e, ovviamente, autocompiacente, quasi che l’enunciazione di un proposito qualsiasi o di un qualche risultato, quasi sempre burocratico e continuativo, non soltanto rappresenti una solenne fattualità intesa come una risposta concreta ai problemi del Paese, ma la conferma dell’assunto, dell’obbligo primordiale: riformare il Paese. A parole, come vorrebbe qualcuno far notare. Tanto più che quell’assunto, quell’impegno, quel contratto, quei progetti annunciati ed enunciati più di una volta al giorno e pure di notte (in tv) sono lungi non soltanto dal compiersi ma da un vero inizio, come è d’obbligo stante l’impegno solenne per le riforme, tanto declamate quanto, fino ad ora, latitanti.

Intendiamoci, almeno due risultati comunque importanti sono stati portati a casa, come il decreto fiscale con fiducia alla Camera e la fiducia al Senato sul decreto corruzione. Ma non basta, anzi. Nella penombra, se non al buio, è rimasto uno dei peccati originali di Matteo Salvini (erede di Bossi e Maroni) che aveva stabilito non solo un’alleanza, peraltro storica, con Forza Italia, ma il relativo programma di governo, abbandonato per un governo con Grillo & Casaleggio e con il co-vice Luigi Di Maio, che non è poco. Tanto da fare alzare i toni a Silvio Berlusconi che sta ricordando a Salvini quel peccato e la sua ombra di tradimento.

Meglio tardi che mai, si vorrebbe aggiungere; resta il fatto, e non un’opinione, che il passaggio della Lega da un’alleanza all’altra se non storicamente è da iscrivere politicamente negli annali, nonostante questa politica, come si diceva all’inizio, sia stata congedata. Il ché non le impedirà di riservarci sorprese tali da far rimpiangere la tanto infamata Prima Repubblica con i suoi protagonisti, cioè i partiti travolti nel tritacarne antipartitico che li ha cancellati. Ma c’è una sorta di vendetta da parte dei cancellati, finiti nel cestino insieme alla politica tout court, ed è riscontrabile sempre più frequentemente in una certa onda di nostalgia proprio per loro, per i vecchi partiti che avevano idee forti e avevano a disposizione uomini selezionati per gestire la cosa pubblica a tutti i livelli e dove, soprattutto, chi aveva le leve del comando aveva fatto una lunga e quasi sempre pesante gavetta. E ci sarà sempre più da riflettere sul futuro politico del Paese a sei mesi dall’insediamento del Governo giallo-verde. Nonché a sei mesi dalla impressionante insignificanza delle opposizioni.

Aggiornato il 27 dicembre 2018 alle ore 10:55