Dopo voto: fine minacce e bluff

Si fa presto a dimenticare, soprattutto dopo una campagna elettorale. E dopo i suoi risultati. Ma, vale sempre la pena andare a ritroso e rimembrare preoccupazioni, paure, previsioni per dir così drammatiche, se con catastrofiche. I populisti premono, corrono, vincono! Fu il grido di disperazione di qualche comiziante in crisi di ispirazione ma sempre in primo piano sui media. Certo, i populisti, dopo questo 26 maggio, avanzano, ma non sfondano. E l’onda nera nazionalista che s’ergeva pericolosa sul mare tempestoso europeo pronta a rovesciarsi sopra di noi? Era una fake news, né più né meno.

E, tanto per non fare nomi, quel Beppe Grillo e le sue minacce per dir così sottaciute ma ripetute a destra e a manca dal Di Maio scatenato? Pare che il capo politico e fondatore pentastellato invece del “De profundis” sulle sorti degli altri, stia intonando una sorta di “Ave Maria” ma pro domo sua.

Things change, per dirla in termini aulici ma comunque riassuntivi di una vicenda elettorale la cui sede era ed è Bruxelles, europea, ma dai riflessi squisitamente interni, in modo particolare per noi. E l’assalto del fronte sovranista, da Parigi a Varsavia, passando per Roma? Respinto.

La presa d’atto della cannibalizzazione del M5S da parte di Matteo Salvini è un fatto che non può non produrre conseguenze in un Esecutivo del quale s’affrettano un po’tutti (gli interessati) a dichiararne stabilità e unità, ma sta proprio nel vero e proprio ribaltamento dei rapporti di forza all’interno del Governo l’avvertimento di un segnale se non di una verifica prossima ventura, di una resa dei conti inevitabile. Programmatica, tanto per cominciare. Ma non solo, se teniamo a mente (come non ricordarle?) le professioni giustizialiste del casaleggismo di lotta e di governo delle quali un redivivo Antonio Di Pietro, sia pure in vesti contadine, ha rivendicato la paternità con un Di Maio governativo capace bensì di mettervi la sordina ma non completamente e in attesa delle riforme in quel campo da sempre rinviate, probabilmente per paura: delle conseguenze procuratizie.

A parte, come ben sappiamo, i mancati effetti di quel reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio, e che non pochi analisti, a cominciare da uno studio ad hoc dell’Ocse, hanno collocato nella categoria dei bluff, ovvero puro e semplice assistenzialismo, mentre la vera promessa di un concreto e necessario aiuto alla ricerca dell’occupazione è smentita dai fatti.

La vittoria salviniana, da Nord a Sud, isole comprese, è chiara e forte, ma non è chi non veda come questa sia il frutto, più che delle cose-riforme fatte (quali?), delle paure, innanzitutto degli sbarchi che un bravo ministro degli Interni ha voluto e saputo ridurre se non eliminare, ma siamo certi che lo stesso Salvini sappia che il resto da fare è molto. Perché molte sono state e sono le promesse. E sappia anche che il rosario bene in vista, può funzionare, ma come un “una tantum” elettoralistico forse anche in funzione scaramantica, detto laicamente, nei riguardi di quei famosi 49 milioni di fondi pubblici.

E il resto, cioè i fatti? Intendiamoci: la vittoria leghista non è stata regalata, sullo sfondo sia del recupero del Pd, sia dei netti progressi di una Meloni apparsa in forma durante e dopo la campagna elettorale, sia, infine, del non troppo brillante ritorno di un Cavaliere apparso tanto presente, in Tv, quanto solitario, come privo di compagni e compagne di viaggio, ovvero, dirigenti, del suo movimento.

Salvini, come avrebbe detto l’immortale Sciascia, è un uomo d’onore. E sa che alle promesse devono seguire le loro realizzazioni. Non poche, ancorché messe da parte dai rinvii in cui sembrano specializzati i grillini. Ma ora? Adesso il successo salviniano ha tutte le carte in regola per dare il via, non più a parole, alla Tav, all’autonomia, alla Flat Tax e via riformando. Chi vivrà vedrà, come dicevano i nostri nonni.

Aggiornato il 29 maggio 2019 alle ore 11:44