Basta demagogia: fare politica costa!

È l’ora di seppellire l’idea che si possa fare politica a costo zero. La vicenda dei finanziamenti russi alla Lega, fondata o infondata che sia, qui non interessa, impone di riaffrontare il tema dei finanziamenti.

La democrazia costa e costa la sua gestione. E siccome i partiti sono lo strumento principale per il funzionamento della complessa macchina sociale e istituzionale, occorre mettere nel conto i loro oneri. Nelle democrazie mature il finanziamento pubblico è lo strumento prescelto per consentire a tutti i gruppi sociali, anche privi di mezzi economici propri, di entrare in Parlamento, per esercitare lì e non solo nelle piazze, le libertà costituzionali. Accanto al pubblico, le democrazie mature ammettono il finanziamento dei privati. Il dosaggio tra i due cambia da paese a paese, ma, dove la democrazia ha radici profonde, la contribuzione pubblica è sempre prevista, dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti.

Da noi la situazione è diversa: i contributi pubblici sono stati eliminati e quelli privati limitati fortemente. Si è ragionato pressappoco così. La pancia degli elettori brontola dalla fame di giustizialismo per episodi illegali di gestione delle risorse pubbliche? Et voilà, si aboliscono tutte le forme di finanziamento statale, compresi, dal 2018, i rimborsi per le spese elettorali. Non è finita. La pancia di una parte della sinistra e dei movimenti neo sinistroidi reclama la ghigliottina sui ricchi finanziatori? Et voilà, l’invidia sociale si trasferisce sul terreno dell’esercizio delle libertà politiche e s’inchiavardano anche i finanziamenti privati con regole intrusive nella privacy dei donatori, obbligandoli a rendere pubblica la loro appartenenza partitica anche per somme esigue, e regole molto limitative delle somme elargibili, fino a 100 mila euro all’anno.

Questo modo rozzo di fare scelte essenziali per la vita democratica del Paese è distruttivo della funzione mediatrice della politica. È il risultato di stagioni fondate sulla propaganda, è il frutto malato dei tempi anch’essi malati della democrazia liberale.

È vero: casi riprovevoli di uso del denaro pubblico ve ne sono stati, ma la soluzione alle malefatte non è la compressione della partecipazione attiva alla politica. Un conto sono le ruberie, da reprimere con gli strumenti propri di uno stato di diritto e da combattere, sul piano politico, con il libero voto; altro sono misure, per così dire, preventive di azzoppamento della dialettica pluralistica di uno stato liberale.

Ed è pur vero che nella storia recente alcuni uomini d’impresa hanno investito somme ingenti nei partiti. La preoccupazione di evitare partiti padronali, però, non solo è frutto di una visione distorta della democrazia rappresentativa: anche questi devono raccogliere voti per entrare in Parlamento; ma è soprattutto naïf: si può davvero credere che dietro ai grandi partiti non vi siano sempre stati centri economici di comando? È probabile, allora, che i sostenitori della democrazia diretta e una parte della sinistra vogliano in realtà svuotare, con queste misure e subdolamente, lo stato liberale, limitando, in un modo o in un altro, la rappresentatività popolare. In ballo, insomma, c’è la democrazia rappresentativa, non quisquilie.

Riprendere in considerazione il finanziamento pubblico e rivedere le regole su quello privato, in un sapiente dosaggio, sono le uniche strade capaci di garantire una dialettica pluralistica, dinamica e costruttiva, propria di uno stato autenticamente democratico e liberale. Non dobbiamo avere paura di tornare a ragionare: la democrazia ci ringrazierà!

Aggiornato il 15 luglio 2019 alle ore 10:25