Lettera aperta ad Arturo Diaconale sulla Destra Liberale

Gentile Direttore e caro Arturo,

non riesco a rispondere “sub specie aeternitatis” alla tua dichiarazione del 22 ottobre a margine della presentazione dell’Associazione culturale Destra liberale. Consentimi perciò di rivolgermi a te come vecchio liberale oltre che liberale vecchio, amico e collaboratore dell’Opinione da lustri. Intendo quasi confessarmi a te, che da una vita sei schierato come me dalla parte giusta, apparentemente sconfitta eppure vincente al tempo stesso. Non è un paradosso. Le mie confidenze, mi lusingo di crederlo, sono quasi una metafora del destino di tanti liberali nelle vicende della Repubblica. Perciò ti apro il cuore e la mente sul nostro liberalismo.

Sono passato, pensa un po’, da anticomunista viscerale a liberista selvaggio, due accuse insultanti lanciate da comunisti, postcomunisti, liberalisti (così mi piace chiamarli!), e passi; ma anche, te lo sottolineo sebbene dovresti saperlo, da liberali dichiarati e, per molti aspetti, sinceri. Erano, questi liberali “soi-disant” e no, terrorizzati dalla semplice parola “Destra”, se ne sentivano squalificati, sebbene fosse l’augusta parola degli uomini che guidarono il Risorgimento, sviluppando le potenzialità dello Statuto, una costituzione liberale, e consolidandole fino al pareggio di bilancio nonostante le immani spese per l’Unità. La Destra liberale, risorgimentale, patriottica divenne un lascito trascurabile anziché un inestimabile legato; di più: l’unica straordinaria impresa politica di cui potessimo vantarci, come liberali e come italiani. Sganciati da Cavour, Giolitti, Einaudi abbiamo vagato nella Repubblica ondivaghi e insicuri, come se avessimo debiti pesanti da saldare invece che ricchi crediti da esigere dalla storia patria.

Per un lungo tratto, dalla vittoria del 18 aprile 1948, che fu una vittoria della libertà dell’Occidente contro i lacchè del totalitarismo collettivistico, i liberali contarono. Eccome. Avemmo un partito coerente con il nome. Di fronte alla grande questione se il liberalismo dovesse avere un partito suo proprio oppure, senza dar vita ad una formazione specifica, espandersi a fecondare gli altri partiti, sono sempre stato convinto che in Italia fosse indispensabile un partito liberale, di liberali, per il liberalismo, come ben spiegai nel memorandum offerto al Congresso del Pli di Torino nel marzo del 1984. Lo pubblicai pure sotto il titolo “La democrazia illiberale”. Pochi lessero quel pamphlet, che finì nelle biblioteche. E resta attuale perché la “verità effettuale” della società italiana perdura. Lo sottolineo non per vanteria, bensì a riprova della mia coerenza, che avrebbe potuto e dovuto essere la fruttuosa coerenza dell’intero partito liberale. Tu, caro Arturo, ed io siamo consapevoli che la coerenza è la virtù dello stolto, almeno così sostengono tutti i cretini. Resta il fatto che negli Anni ’70 il Bel Paese era squassato dal sinistrismo. Ne fu contagiato anche il Pli, nel quale prese piede la moda “lib-lab”, una variante della “terza via” cercata invano da certa imbarazzata sinistra. Ricordo come adesso l’intervista che il nuovo segretario del Pli dette al Tg1 nel 1976. Alla domanda dove egli collocasse nell’arco costituzionale (meglio chiamarlo fornice, no?) il partito, egli rispose: “Tra la Dc e il Pci”. Trasalii allora e trasalgo adesso a quel ricordo. E non perché avessi voluto una risposta del genere: “Tra la Dc e l’Msi”. Tuttaltro, come ben sai anche tu, per quanti articoli mi hai pubblicato sulla posizione ideale di un vero partito liberale tra le ideologie e le forze politiche dal conservatorismo al socialismo, posizione che ho sunteggiato nell’espressione “diagramma di Hayek”. Fatto sta che negli Anni ’76-’79, sebbene in una posizione “politicamente non convergente”, il Pli non fu estraneo alla “non sfiducia” andreottiana, ed ebbe un ruolo sbiadito ed inconsistente nella temperie culminata con l’assassinio di Moro. Fatto sta, ancora e determinante, che quel Pli non sembrò accorgersi degl’imminenti cambiamenti che stavano per sconvolgere il mondo intero. Gli Anni ’80, infatti, furono aperti dall’elezione di Thatcher e Reagan, e chiusi dal crollo del Muro di Berlino e dall’ammainabandiera del vessillo bolscevico dal pennone del Cremlino: eventi che cambiarono il corso della Storia. Chi presentì il tempo nuovo fu Indro Montanelli, nauseato dalla deriva levogira dell’Italia intera, dove sinistreggiava persino l’alta borghesia e addirittura i miliardari combattevano il sistema che consentiva loro di esserlo e diventarlo. “Il Giornale” da lui fondato il 25 giugno 1974 diventò il vero partito liberale fuori del Pli sia per gli uomini che raccolse intorno a sé, molta parte della crema del liberalismo classico in Italia e in Europa, sia per la funzione politica che svolse a testa alta e con profilo netto. Uomini del “Giornale”, più altri come me, organizzarono la corrente minoritaria di “Autonomia liberale” nel Pli, senza fortuna. Rimasero sempre opposizione interna.

A questo punto lasciami ricordare, caro Arturo, il Consiglio nazionale del Pli del 1983, che, ad inizio legislatura, fu chiamato a decidere se partecipare o no alla svolta politica del primo governo presieduto da un socialista, il segretario stesso del Psi. Vi furono presentate tre mozioni. La prima di “Democrazia liberale”, firmata Malagodi e Bozzi, che approvava l’azione della segreteria per entrare nella maggioranza e nel governo, ebbe 86 voti. La seconda di “Autonomia liberale”, firmata Sterpa e Rossi, che, senza opporsi a tale partecipazione, poneva delle condizioni, ebbe 14 voti. La terza, scritta e firmata da me, ebbe solo il mio voto. Nella mozione e nell’illustrazione argomentavo ampiamente le ragioni storiche, filosofiche, politiche, sociali per le quali il Pli non dovesse entrare né nella maggioranza né nel governo Craxi. Se tu avessi la curiosità di riandare a quell’importante dibattito, potresti soddisfarla leggendone il resoconto su L’Opinione, 6 settembre 1983. Allegai a mio sostegno e conforto anche il celeberrimo discorso che Benedetto Croce tenne in Senato il 24 maggio del 1929 sui Patti Lateranensi. Notai anch’io che coloro i quali si compiacevano di vedere nel governo socialista in gestazione un bell’atto di “fine arte politica” mettevano in pratica il “trito detto che Parigi val bene una messa”. Oggi mi sento di dire che con il governo Craxi il Pli non andò a Parigi e che non valeva ascoltare neppure la messa per andarci. Tra l’altro aggiunsi che, con il Pli nella maggioranza, mentre il coefficiente liberale del governo sarebbe stato impalpabile quanto incerto, l’opposizione genuinamente liberale avrebbe rischiato seriamente di scomparire quasi. Non è forse accaduto?

Caro Arturo, i nostri principi sono semplici e luminosi: governo rappresentativo, imperio della legge, economia di concorrenza, responsabilità individuale, umanesimo liberale. Un vituperato (indovina da chi?) aspirante alla presidenza americana, accettando la candidatura, disse: “L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio. La moderazione nella ricerca della giustizia non è una virtù”. Ecco, mi pare che, negli anni vicini a noi e lontani dal ventennio della Ricostruzione, i liberali italiani abbiano messo in positivo il negativo delle proposizioni, invertendone il senso. Perciò concordo sul tuo auspicio di una forza “liberale, liberista, libertaria”, con tutto quel che ne consegue, se la coerenza è coerenza. Tuttavia, credimi, non c’è alcun bisogno di richiami al carattere “laico, riformista, riformatore”. Sono vocaboli che non ci appartengono, perché lo siamo già per intrinseca natura, sicché il volerci qualificare tali a parole, conferisce una cera malaticcia a noi che abbiamo il ritratto della salute. Il liberalismo non ha bisogno di proclamarsi o di darsi la patina di “sociale”, perché lo è già di fatto, realizzando a vantaggio di ognuno le migliori condizioni di vita compatibili con la libertà di tutti.

Il “partito liberale” è fondato su libertà e uguaglianza, l’inscindibile essenza dell’unica vera democrazia, Ipse dixit. Il “partito di liberali” riunisce chi crede davvero nella dottrina che professa, dopo aver imparato a conoscerla nella teoria e nella pratica, di ieri e di oggi, a cominciare dai padri moderni Hume e Smith. Il “partito per il liberalismo” propugna sistematicamente le soluzioni liberali, non una politica purchessia. Deve fugare ogni dubbio ed escludere ogni doppiezza. Tre sono gli errori capitali che il partito del liberalismo non può permettersi: il primo è fare solo politica di palazzo, perché le cose che contano davvero restano fuori; il secondo è volgere sempre la politica in cortigianeria perché, per compiacere gli uomini e i partiti dei quali desidera il rispetto e i favori, farà quello che vogliono loro e non ciò che dovrebbe; il terzo è fare talvolta una politica da cortile, perché poi quasi certamente sarà trattato da pollo. Senza dimenticare che solo conquistando alla libertà l’opinione degli individui porterà i loro interessi sotto la sua bandiera.

Concludendo, caro Arturo, e parlando in generale, è ovvio, i liberali nostrani somigliano “ai pugili barbari che – ricorda Demostene – portano le mani là dove ricevono il colpo; né sanno né vogliono parare o prevedere i colpi”. Non succede mai che siano loro a decidere qualcosa o a prevedere qualcosa prima di apprendere che è già accaduta o sta accadendo. Sono tirati di qua e di là. Dovunque tengono dietro a chi conclude. Sono gli altri il loro stratego.

Aggiornato il 31 ottobre 2019 alle ore 13:35