Oggi, salvo colpi di scena, la Giunta delle elezioni e delle autorizzazioni a procedere del Senato si esprime sulla richiesta di mandare a processo ai sensi dell’articolo 96 della Costituzione il senatore Matteo Salvini nella qualità di ministro dell’Interno pro-tempore per il reato di sequestro di persona aggravato (articolo 605 C.p. commi primo, secondo - numero 2, e terzo). Ma sarà l’Assemblea in seduta plenaria a prendere la decisione definitiva.

La vicenda riguarda 131 degli immigrati raccolti dalla nave della Guardia costiera “B. Gregoretti” (identificativo Cp 920) nel luglio del 2019. Per il Tribunale dei ministri di Catania Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno del Governo giallo-blu, avrebbe compiuto un sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere nel trattenerli illecitamente a bordo della “Gregoretti”. Il reato si configurerebbe per averne impedito lo sbarco sulla terraferma nelle fasi immediatamente successive all’arrivo della nave nella rada di Catania, ancor prima che l’Imrcc (Italian Maritime Rescue Coordination Center) del Comando generale delle Capitanerie di Porto individuasse il Pos (Place of Safety) nel pontile Nato del porto di Augusta e lo comunicasse al comandante della “Gregoretti” alle ore 23 del 27 luglio 2019. Il Tribunale ha deciso di procedere per la condanna del ministro nonostante la Procura della Repubblica del capoluogo etneo avesse chiesto l’archiviazione del procedimento perché “il fatto non sussiste”.

La Giunta del Senato deve valutare se “l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo” (art. 9 punto 3. Legge costituzionale 16.12.1989 n. 1). Per i giudici di Catania il comportamento delittuoso del ministro dell’Interno è acclarato. Si tratta di stabilire se tale condotta sia giudicabile o vi sia invece una scriminante che la sottrae alla giurisdizione ordinaria. Il reato è di particolare gravità per cui l’esame dei documenti disponibili, insieme alla memoria difensiva presentata dall’inquisito, meriterebbe un attento giudizio, non condizionato dagli opportunismi della lotta politica. Per prendere in contropiede la maggioranza demo-grillina-renziana che lo vuole eliminare per via giudiziaria il senatore Salvini chiede, commettendo un grave errore, ai senatori leghisti della Giunta di votare a favore dell’autorizzazione a procedere.

La questione, tuttavia, travalica le sue sorti personali per approdare al nodo irrisolto della Seconda Repubblica in merito all’equilibrio dei Poteri in uno Stato costituzionale a base liberale. La vicenda pone un interrogativo: la politica intende riaffermare il suo primato oppure si è arresa alla propria debolezza, foriera di quella subalternità ad altri Poteri, affiorata nell’ultimo quarto di secolo? La Carta costituzionale offre ai parlamentari il potere di decidere quali azioni compiute nell’esercizio della funzione di governo debbano essere sottratte alla giurisdizione ordinaria perché rese nell’interesse dello Stato o di un prevalente interesse pubblico. I senatori potranno essere in dissenso con le politiche perseguite dal singolo ministro, cionondimeno dovrebbero sentirsi impegnati a non delegare la decisione ad altro organismo dello Stato. Perché sia chiaro: cosa è il giudizio politico, altro il processo penale. In una condizione normale funzionerebbe così. Ma in Italia la dinamica istituzionale non corre su binari regolari.

È da Tangentopoli che i politici, in particolare della sinistra, hanno usato lo strumento giudiziario quale mezzo di lotta politica. Scelta autolesionistica, perché l’Ordine giudiziario ha ampiamente dimostrato di non essere disponibile a farsi manovrare da questa o quella forza politica. Alcune correnti organizzate all’interno della magistratura hanno coltivato il piano di farsi guardiane della morale repubblicana orientando l’azione dello Stato attraverso l’uso improprio delle indagini giudiziarie e dei processi penali. Il caso in esame lo conferma.

Il ragionamento svolto dal Tribunale dei ministri di Catania, che anticipa il giudizio di colpevolezza del ministro dell’Interno, ruota sul principio della minima permanenza temporale degli immigrati sul mezzo di soccorso. Ogni istante di ritardo riscontrato nelle operazioni di sbarco degli immigrati nel primo porto italiano raggiunto concorre a integrare, nella previsione dei giudici, il reato di sequestro di persona. Ragione per la quale al ministro dell’Interno non viene riconosciuta, dall’organo giudicante, alcuna discrezionalità nella decisione non nel se ma semplicemente nel quando autorizzare lo sbarco d’immigrati clandestini soccorsi in mare.

A differenza del caso della nave “Diciotti”, che presenta alcune analogie con quello in discussione, non c’è stata gente tenuta in mare per svariati giorni. All’esito delle indagini risulta che le operazioni si siano svolte in assoluta regolarità. Il tempo trascorso a bordo dagli immigrati, dall’attracco al Pos (Place of Safety) di destinazione definitiva al momento in cui è stato autorizzato lo sbarco, è calcolabile tra le ore 03,15 del 28 luglio (arrivo al porto di Augusta) e il 31 di luglio, sebbene i giudici collochino l’inizio dell’azione delittuosa al momento dell’arrivo della “Gregoretti” nella rada di Catania alle 00,35 del 27 luglio 2019. Gli immigrati hanno ricevuto assistenza sanitaria, potevano comunicare telefonicamente con l’esterno e sono stati adeguatamente rifocillati, nel mentre le autorità di governo intensificavano i contatti con le cancellerie degli altri Paesi europei alla ricerca di un accordo di redistribuzione dei clandestini recuperati.

Per i giudici quei quattro giorni, pur operosi da parte delle istituzioni, inchiodano il ministro dell’Interno a uno dei reati più odiosi previsti dall’Ordimento giuridico, punito fino a 15 anni di reclusione: il sequestro di persona aggravato. Salvini come un Matteo Boe? Dopo il banditismo sardo adesso, per sentenza, c’è l’anonima sequestri del Viminale? Sembra assurdo ma accade, grazie alla complicità di una classe politica inetta e squalificata. E i giudici? C’è poco da fare: le conclusioni a cui è giunto il Tribunale dei ministri di Catania contengono un evidente indirizzo di carattere politico sul governo del fenomeno migratorio. Eppure, non dovrebbe essere la magistratura a dire alla politica come gestire l’ingresso in Italia di clandestini.

Rispetto a tale invasione di campo il Parlamento dovrebbe fare argine comune, a prescindere dalla valutazione sulla persona dell’inquisito o sulle sue scelte politiche. Invece, siamo al cospetto di gnomi rancorosi che preferiscono sfruttare l’occasione offerta dai magistrati per rifarsi delle bocciature che regolarmente ricevono dal corpo elettorale. È storia nota, appartenuta alla sinistra dai tempi della persecuzione di Bettino Craxi, l’idea di battere per via giudiziaria il nemico che vince nelle urne piuttosto che affrontarlo in un leale confronto democratico. Oggi tocca ai grillini coprirsi di ridicolo nell’arrampicata sugli specchi alla ricerca di una motivazione surrettizia per giustificare la capriola rispetto alla volta precedente, era il caso della nave “Diciotti” e uguale l’ipotesi di reato, in cui fecero scudo alla stessa persona che oggi vogliono pugnalare. Si dirà: ne perdono in credibilità Cinque Stelle, renziani e “dem” mentre Salvini ne beneficerà elettoralmente. È irrilevante: il danno non lo si fa alla Lega ma allo Stato di Diritto. E al primato della politica in una democrazia.

Ai membri della Giunta per le autorizzazioni rivolgiamo un accorato appello perché non cedano al miserabile, ancorché stupido, interesse di bottega. Ci rivolgiamo ai grillini che sono entrati in Parlamento inneggiando ai più alti valori repubblicani: siano una volta nella vita coerenti con le posizioni spavaldamente rivendicate sul caso della “Diciotti”, quando Salvini era l’amico e non il nemico. Si facciano un regalo: si ridiano quell’onore che hanno gettato alle ortiche.

Aggiornato il 20 gennaio 2020 alle ore 11:46