Ho letto su Rivoluzione Liberale il lungo articolo, di taglio storico, di Stefano de Luca e, anche se le polemiche tra i liberali lasciano ormai il tempo che trovano (ricordano purtroppo delle battaglie miniate racchiuse in una bottiglia), sento il desiderio di rispondergli, perché in quella storia mi ci ritrovo, perché mi piace raccontare la mia verità e infine perché l’abitudine di polemizzare con Stefano e prima di lui con tanti altri nel Pli e nell’Agi, era una mia antica consuetudine di cui conservo un ricordo che il tempo rende caro. E dirò subito che non sono state le vicissitudini del piccolo nuovo Pli, di cui pure fui uno dei rifondatori, ad avermi spinto a dar vita insieme a tanti altri amici ad un’associazione chiamata Destra Liberale Italiana, ma piuttosto le vicende del partito liberale di Giovanni Malagodi.

Forse alcuni videro nella grande battaglia di Malagodi contro il centrosinistra cose diverse, ma io ci vidi una grande mobilitazione contro il socialcomunismo che avrebbe dovuto portare alla ricostituzione di un’alleanza con la Dc e le destre per riparare il grave errore di aver fatto cadere il Governo Segni, aprendo la strada alla svolta a sinistra. Ci vidi il tentativo di costruire quella destra democratica e nazionale che nell’Italia repubblicana era sempre mancata.

Per me, giovanotto studioso ma un po’ schematico, Carandini, Villabruna, La Malfa, il Mondo, l’Espresso erano dei disertori della battaglia anticomunista che agivano consapevolmente o no come cavalli di Troia e la battaglia contro lo statalismo era tutt’uno con quella contro il comunismo. Mi aspettavo che la campagna elettorale del 1963 fosse preparatoria di una unione di tutte le destre, sotto la guida liberale, perché solo così si poteva assicurare alla Dc una maggioranza alternativa. Non comprendevo, allora, come l’operazione di creare una sinistra “liberal” (io credo essenzialmente dovuta a Gianni Agnelli) fosse in realtà un’azione di lunghissima portata per portare tutta la sinistra ad accettare col tempo l’economia di mercato, ma vedevo benissimo come tutta la destra fosse già pronta ad essere un pilastro della democrazia, con i monarchici che erano, come noi, gli eredi del risorgimento e un Msi che, con Arturo Michelini ancor più di Giorgio Almirante, era già pronto a diventare un partito conservatore alleato. Per me la battaglia del 62/63 non era uno scontro tutto e solo interno al centrismo, ma una vera e proprio sollevazione liberale tale da portare in Italia ad una rivoluzione come quella che Ronald Reagan e Margaret Thatcher avrebbero realizzato nei loro Paesi e che noi non abbiamo mai avuta. Non fu così che Malagodi la intese, forse per sua volontà o per difficoltà con la sinistra interna, mise sempre più acqua nel vino liberale, fino a farne un esangue partito centrista abbandonato dagli elettori. Già la sinistra interna, la sinistra liberale dei Bonea, degli Alessio, dei Morelli, dei Marzo che non vinceva i congressi ma riusciva ad impedire che il Pli continuasse ad avere una chiara connotazione.

Non sarò certo io, da liberale, a contestare il loro diritto all’azione politica, ma non posso dimenticare il tempo infinito perso nelle interminabili riunioni, nelle inutili polemiche, nelle energie perse a reclutare inutili “cammelli” per rifiutare la semplice realtà che eravamo due famiglie politiche diverse, che, insieme, si paralizzavano. Ho sempre ritenuto che l’uscita di Carandini e Villabruna abbia rafforzato il partito liberale, mentre la presenza di Valerio Zanone lo abbia indebolito e credo che il Pli avrebbe potuto avere tutta un’altra storia (non lo saprò mai con certezza, ma a me risulterebbe che Malagodi stava per sterzare a destra con Brosio, prima di aprire a Zanone) se avesse scelto di stare chiaramente a destra. In ogni caso Zanone poi finì nel Pd e Costa, Biondi e de Luca in Forza Italia, perché la forza delle differenze prima o poi si impone.

Dopo un’assenza di anni in varie nazioni per lavoro, feci in tempo ad assistere al congresso che a maggioranza decise lo scioglimento del Pli e ricordo con nettezza che Stefano de Luca si oppose e nacque da lì una simpatia ed un sodalizio, che ci portò (salto molti passaggi) a creare una sorta di “rete liberale” che era però tutta interna al centrodestra, io, Pagliuzzi, Landi e Bosello eravamo infatti diventati parlamentari di An, Savelli, Costa, Biondi, de Luca, Martino di Forza Italia, più tanti altri, ma tutti da questa parte della barricata. Quel primo centrodestra purtroppo mancò gli obiettivi, e, a torto o a ragione, io feci un raggruppamento dichiaratamente liberale di destra e de Luca uno di centro e poi provammo ad unire le forze per rifondare il Pli.

Purtroppo, a parte l’estrema esiguità della forze, in effetti ci riuscimmo, nel senso che il piccolo nuovo Pli presentò subito tutti i difetti del vecchio e cioè una divisione tra destra e sinistra paralizzante nell’azione e deleteria per la credibilità con i potenziali alleati, perché oscillante tra tentativi di riallacciare legami con Forza Italia e sogni di rinascita laica coi socialisti di De Michelis e se è vero che i più grandi partiti non ci trattarono certo con attenzione, non fummo privi di responsabilità e di mancanza di senso dei nostri limiti.

E così di nuovo molti liberali, da Diaconale a Taradash, da Palumbo a Pagliuzzi, da Bonfrisco a Morandi, se ne sono riandati. E senza risolvere il problema, perché il piccolo Pli è come una calamita, che se pure la spezzi riforma subito e sempre due poli, uno che guarda a destra e uno a sinistra. Venendo ad oggi, non c’è dubbio che io più di ogni altro guardassi alla Lega con molta simpatia perché la ritenevo (e la ritengo) una riserva di energia essenziale per il Paese e la sola, oggi, che possa portare il centrodestra alla vittoria in questi anni in cui il “politically correct” sta corrodendo la democrazia, ma non è solo per questo che reagii nettamente alla inopinata mozione anti Lega di Stefano de Luca dimettendomi, è stato anche per il ricordo degli anni giovanili, spesi in inutili polemiche che non potevano avere fine, perché avvenivano tra persone che non volevano andare dalla stessa parte.

So bene che Cavour, Croce ed Einaudi piacciono a tutti i liberali e convengo volentieri che non è poco, ma per il resto siamo, dall’inizio dell’era repubblicana, almeno tre famiglie politiche diverse e la mia parte è la destra, che spero sia sempre più liberale, ma destra.

Aggiornato il 11 marzo 2020 alle ore 10:56