Italia: dalla Via della Seta a quella coronavirus

“Siamo tutti cinesi”, ha annunciato Beppe Grillo in un tweet profetico del 29 febbraio. Come se già sapesse che ben presto l’Europa avrebbe superato per numero di contagi la Cina, da cui ha preso piede la pandemia ora diffusa ovunque nel mondo. Coloro che hanno contratto l’infezione in tutti gli stati membri dell’Ue, se sommati risultano infatti essere più degli 81.138 cinesi stimati ieri sul portale del Center for Systems Science and Engineering della Johns Hopkins University.

Un primato continentale destinato a rafforzarsi, visto che in Paesi come Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna il coronavirus si sta manifestando in maniera esponenziale solo da pochi giorni rispetto all’Italia, travolta malauguratamente per prima dall’emergenza sanitaria, sebbene i contagi a livello giornaliero continuino a registrare pesanti aumenti: 4.207 tra il 17 e il 18 marzo, per un totale di 35.713, mentre i decessi con un più 475 sono saliti a 4.207. Si tratta di un’enormità, tenendo conto della differenza con la Cina sia in termini di popolazione complessiva, italiana ed europea, che dimensioni territoriali.

“Non è colpa di nessuno, se non di chi il problema lo ha generato”, ha affermato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dopo l’approvazione di un pacchetto di misure da un 1.200 miliardo di dollari a sostegno dell’economia e dei cittadini americani. Il coronavirus sta infatti colpendo duro anche oltreoceano, con 9.415 casi di contagio e 112 morti.

Se Trump ha indubbiamente ragione riguardo alla “cinesità” del virus - di fronte all’evidenza non hanno alcun motivo di offendersi né a Pechino, né presso le relative rappresentanze diplomatiche nel mondo -, sulle colpe della diffusione della pandemia, la presa di distanza del presidente americano appare interessata. Questo perché, senza eccezioni, tutti i governi in Occidente hanno fatto poco o nulla per prevenire l’allargamento del contagio dopo l’emersione dei primi focolai, trovandosi poi costretti ad adottare provvedimenti di ordine pubblico via via più stringenti nel tentativo di frenare il dilagare del virus.

Con accenti diversi, l’azione/reazione delle varie leadership sulle due sponde dell’Atlantico ha in comune la sottostima iniziale (“non è altro che un’influenza”), i tergiversamenti nell’intervenire e l’attuale retorica in stile bellico tesa a giustificare la chiusura di scuole, uffici pubblici, esercizi privati, nonché i divieti di assembramento e circolazione.

Da questo punto di vista, l’Italia rappresenta un caso di scuola, in senso negativo, dell’inefficacia di quella che lo stesso premier, Giuseppe Conte, ha definito “proporzionalità graduale” come criterio guida del suo esecutivo nella “guerra” contro il coronavirus.

Se avesse prestato adeguato ascolto alle richieste di maggiore iniziativa, provenienti dalle zone direttamente interessate e non solo, mettendo in quarantena i focolai prima che il virus si diffondesse in tutto il settentrione e poi nel resto del territorio nazionale, Conte avrebbe evitato il rincorrere costante e affannato del contagio che lo ha infine indotto a dichiarare “zona rossa” l’intera penisola a tempo indeterminato.

Di certo, i ritardi e l’intempestività del suo operato sono anche dovuti alle strumentalizzazioni politico-mediatiche di una certa sinistra, che hanno contribuito sia a ridurre nella popolazione la percezione della serietà della situazione, che a frenare Palazzo Chigi nel prendere decisioni “forti” a tutela della salute e della sicurezza degli italiani.

Lentezza e intempestività, tuttavia, sono state manifestate dal governo anche nella decisione di chiudere la Borsa di Milano solo dopo la presunta “gaffe” della presidente della Bce, Christine Lagarde, e non precedentemente, malgrado le continue chiusure in ribasso. Mentre il decreto “cura Italia” appare un pannicello ancora tiepido per consentire al Paese di conservare la linfa vitale necessaria a sopravvivere in attesa che l’emergenza volga al termine.

La differenza delle risorse messe in campo dall’Italia rispetto non a Stati Uniti o Cina, ma a Francia, Germania e Gran Bretagna (25 miliardi di euro contro stanziamenti nell’ordine delle centinaia di miliardi), la dice lunga sugli scarsi margini di manovra del governo e sulle ulteriori difficoltà a cui la popolazione sarà chiamata a fare fronte.

Annunciando il decreto, Giuseppe Conte ha vagamente prospettato l’esistenza di un (fantomatico) moltiplicatore che trasformerà i miliardi di euro da 25 a oltre 300, ma gli italiani sanno che la coperta è troppo corta e che l’Unione Europea, tanto decantata dal Partito Democratico, più che mostrare solidarietà resta in agguato con il Mes e le sue ambiguità.

Le mascherine da Francia e Germania, per le quali si è attivato persino il presidente della Repubblica, infine arriveranno e gli Stati Uniti hanno giurato il loro amore per l’Italia (sempre Trump via Twitter). Ciononostante, cresce la sensazione che la spasmodica ricerca di benefattori esterni, dotati di grandi quantità di denaro e vogliosi d’investire, a cui rivolgersi per la “ricostruzione” post-coronavirus, stia conducendo a un solo Paese: la Cina, proprio lei, prodiga di mascherine e strumentazioni mediche, invitata ufficialmente da Conte a inviare i suoi esperti a supporto di quelli italiani, accolti con il tappeto rosso dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Nel dramma sembra così fare festa il partito filo-Pechino in Italia, di cui Beppe Grillo è all’avanguardia. Sul suo blog e su Twitter, si parla di “Cina-Italia: un destino condiviso”, si pubblicizzano le donazioni della Huawei Italia e si dice che “siamo stati noi a generare l’epidemia”. Povera Italia, dalla Via della Seta a quella del coronavirus?

Aggiornato il 19 marzo 2020 alle ore 14:44