Durante questi lunghi giorni di pandemia abbiamo capito molte cose. Pensavamo che non ci fosse l’Italia – deturpata com’è – ma che almeno gli italiani fossero fatti. La transumanza incosciente dal nord al sud ha dimostrato che gli italiani sono riconoscenti fino a prova contraria. Quando c’è da battere in ritirata lo fanno di gran carriera non guardando in faccia a nessuno, nemmeno a quelle terre che li hanno accolti regalando sogni e speranze che altrimenti sarebbero rimaste frustrazioni covate nel proprio paesello. Pensavamo che ci fosse almeno un minimo di senso civico ma il numero di infrazioni per futili motivi al divieto di circolazione è la prova provata del fatto che senso civico per l’italiano medio è biascicare l’inno nazionale (non conoscendone le parole) al balcone con la mano sinistra appoggiata sul petto (dalla parte sbagliata) e giusto in tempo per l’aperitivo. Pensavamo che ci fossero le istituzioni ma era una falsa illusione visto che per troppo tempo abbiamo votato a capocchia favorendo il proliferare di brocchi che si sentono statisti. Pensavamo che ci fosse un minimo di unità nazionale sostanziantesi nello stop alle polemiche in un momento così drammatico: abbiamo ben presto capito che lo stop alle polemiche vale solo quando gli altri attaccano te. Nel caso contrario è sacrosanto diritto di critica. Lo scaricabarile, le polemiche dirette e quelle per interposti ordini professionali o sindaci ne sono un fulgido esempio.

Pensavamo che parole come confini, controllo del territorio, potenziamento del sistema sanitario, tutela del tessuto imprenditoriale, sostegno agli autonomi (quelli reputati ladri per definizione) fossero arnesi anacronistici. Adesso abbiamo paura ed annaspiamo nell’incertezza. L’ultimo slogan del momento è invece definire angeli coloro che combattono a mani nude nelle corsie tirandoci fuori dai guai in cui ci ha ricacciato questa pandemia dai contorni ancora ufficialmente oscuri. La prova del fatto che definire angeli coloro che lavorano negli ospedali sia perbenismo peloso ci giunge dai numeri e dalla fredda cronaca. Secondo un recente sondaggio Anaao Assomed (Associazione medici dirigenti), il 65 per cento dei medici dice di essere stato vittima di aggressioni. Il 66,19 per cento ha subito aggressioni verbali, il 33,81 per cento ha subito aggressioni fisiche. La percentuale di chi è stato aggredito sale all’80 per cento per i medici in servizio nei Pronto soccorso e al 118.

Dati schiaccianti che derivano dalle denunce all’Inail e da analoghe indagini condotte, tra gli altri, dalla Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) anche agli inizi del 2020. Inoltre ad avere la peggio sono le dottoresse che rappresentano il 56 per cento dei casi totali di aggressioni. Nel 2019 i numeri ufficiali parlano di oltre mille episodi, che però, secondo la Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere), sono solo la punta dell’iceberg: con le aggressioni non denunciate, sostiene la federazione delle aziende sanitarie, il bilancio salirebbe a tremila episodi in un solo anno (i più colpiti sono proprio medici e infermieri del pronto soccorso, gli angeli appunto). Ma invece, adesso che ci servono, gli aggrediti, i denunciati a cui si chiede spesso e volentieri un risarcimento per cure scorrette, i bistrattati diventano putti immacolati. Dobbiamo restare in casa e per questo abbiamo molto tempo a disposizione. Bisognerebbe utilizzarlo per riflettere sulla nostra ipocrisia. Questo isolamento porta con sé, oltre a tantissimi svantaggi, una immensa opportunità: cogliamo l’occasione per riscoprirci e fermarci a ponderare con un barlume di obiettività proprio su noi stessi. Non ci ricapiterà mai più una simile occasione.

Aggiornato il 07 aprile 2020 alle ore 12:32