Conte: il destino di un presidente... per caso

In Italia c’è qualcuno che più di ogni altro teme il Coronavirus: è Giuseppe Conte.

Non si tratta della preoccupazione di essere contagiato, com’è accaduto al premier britannico Boris Johnson che ha conosciuto di persona il Covid-19. La paura che sta scuotendo il premier italiano deriva dalla possibilità, che si fa strada, di essere lui il capro espiatorio dei tanti errori commessi nella gestione dell’epidemia e sempre lui di essere l’agnello sacrificale che il Partito Democratico, suo “lord protettore”, si prepara a servire sul piatto della salvezza dei posti di potere occupati in questi mesi. Per Nicola Zingaretti e compagni il Governo è un osso ancora troppo polposo perché si possa pensare di mollarlo. Il grido di battaglia della sinistra è: “Rimanere incollati alle poltrone a tutti i costi”. Ma, per come si sono messe le cose nel Paese e in Europa, diventa oggettivamente difficile tenere la posizione di fronte al malcontento montante tra la popolazione. La sensazione che si ricava da queste ultime ore convulse della politica è che si sia innescato una sorta di gioco del cerino tra alleati di Governo. Nelle condizioni date, la sconfitta consisterebbe nell’essere colti, nel momento in cui la situazione sociale scoppierà, con il cerino acceso tra le mani.

I grillini, per non restare definitivamente schiacciati dal peso della pessima azione di governo, hanno colto al volo l’occasione offerta dalla batosta rimediata dall’Italia in sede di Eurogruppo sull’introduzione degli Eurobond per una presa di distanze dall’operato dello stesso Conte. Su altro fronte, il piccolo ma indigesto gruppo renziano prosegue nell’opera di demolizione intra moenia del Conte-bis, attività peraltro cominciata ben prima dell’esplosione dell’epidemia. Il refrain di Matteo Renzi, che trova sponda negli ambienti collegati a Confindustria, riguarda l’immediato riavvio delle attività produttive. Richiesta che non coglie la disponibilità del premier, condizionato sia dal parere contrario degli esperti della sanità sia dai sindacati i quali cercano di riconquistarsi una credibilità sventolando la bandiera della difesa della salute dei lavoratori.

In un tale scenario, con l’opposizione alle porte che reclama uno spazio da protagonista nella fase di ricostruzione del Paese, ai “Dem”, arroccati a difesa del bastione governativo, non restano molte opzioni disponibili. Il Partito Democratico conta sull’appoggio del Quirinale che, dal varo del Conte-bis concepito per mandare la Lega all’opposizione, è divenuto il “Dominus” del quadro politico. Tuttavia, anche avere dalla propria parte il burattinaio potrebbe non bastare, soprattutto alla luce di ciò che sta emergendo dai rapporti d’intelligence e dalle informative del ministero dell’Interno che sempre più apertamente riferiscono di un concreto rischio di rivolta sociale quando, finiti i denari, gli italiani dei ceti medi e popolari non avranno risorse sufficienti per sopravvivere. La decisione di costituire un comitato di super esperti di economia e sviluppo industriale è attribuita ai “Dem”, che avrebbero agito con la benedizione del Quirinale. La task force, capitanata da un manager di indiscusse capacità quale Vittorio Colao, già Ceo di Vodafone, nasce col mandato di strutturare un processo a tappe per indirizzare la ripresa economica del Paese. In realtà, potrebbe trattarsi di un commissariamento di fatto del presidente del Consiglio che, decurtato di poteri decisionali, salverebbe formalmente il posto da premier. Ma se anche questa soluzione non dovesse bastare, sarà inevitabile la mossa definitiva: il licenziamento individuale di Conte e la sua sostituzione con una figura di diversa caratura internazionale che non sia però quella di Mario Draghi, troppo gradito alla destra leghista e berlusconiana. Quindi, seguendo il filo del ragionamento sviluppato da Francesco Galietti sulle colonne di “Atlantico”, si profilerebbe uno “Shadow Cabinet” guidato da Vittorio Colao e ispirato dal pupillo di Beniamino Andreatta: Enrico Letta, col sostegno dell’inaffondabile Giovanni Bazoli e la longa manus del Quirinale?

Si dirà: i grillini non lo permetteranno. Dopo i continui cedimenti dei Cinque Stelle alle pretese del Pd la resa sulla posizione di Giuseppe Conte è più di una remota ipotesi di scuola. D’altro canto, a facilitare la soluzione finale ci si è messo lo stesso premier con le sue sgrammaticature istituzionali da pivellino della politica. La reazione rabbiosa in conferenza stampa lo scorso venerdì nella quale ha attaccato frontalmente i leader dell’opposizione, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, è stata un disastro politico e comunicativo. La scorrettezza mostrata nel fare un uso propagandistico dello spazio televisivo riservato alle comunicazioni del presidente del Consiglio al Paese, non è piaciuta a nessuno: politica e opinione pubblica. Conte ha mostrato di essere un uomo che ha perso la bussola e che reagisce con gesti di bassa cucina demagogica alle difficoltà di gestione della crisi. Da qui l’inevitabile domanda che spalanca le porte al suo defenestramento: può una persona così emotivamente frustrata avere la lucidità necessaria per guidare la nazione nella fase più difficile della sua storia repubblicana? Dagli imbarazzi dei suoi alleati e dai sondaggi sulle opinioni degli italiani la risposta è una campana a morto per il premier. Ma un cambio in corsa del cavallo di testa può avvenire senza che si rivedano gli equilibri complessivi e la composizione della maggioranza di sostegno al Governo? In condizioni di regolarità della dialettica democratica, la risposta è negativa. Nello stato d’eccezione, dove per ragioni di salute pubblica vengono rinviate le scadenze elettorali, il minimo che ci si aspetterebbe dalle più alte istituzioni di garanzia sarebbe l’indicazione di un Governo di unità nazionale nel quale venissero coinvolte tutte le forze presenti in Parlamento. Purtroppo, in Italia l’equilibrio democratico è stato gravemente vulnerato dalla decisione di mettere in piedi un Governo di sinistra che palesemente non godeva del consenso maggioritario degli italiani pur di non consentire alla destra plurale di andare alle elezioni e ricevere dal popolo il mandato a governare. La “Conventio ad excludendum”, sancita la scorsa estate col sigillo impresso a fuoco dell’inquilino del Quirinale, non è stata superata. Ciò potrebbe indurre tutti i protagonisti in campo dell’odierna maggioranza a non forzare la mano. Paradossalmente, sarebbe lo stallo la polizza sulla vita regalata a Conte: se cade lui, bisogna chiamare in gioco la destra che è ciò che in assoluto si vuole evitare. Quindi, un Conte commissariato potrebbe essere l’unica alternativa praticabile col gradimento del Quirinale che non a caso nel messaggio augurale di Pasqua agli italiani ha smesso d’insistere sulla necessità di una “coesione nazionale” per far fronte all’emergenza. Ma c’è un rischio grosso. Se anche il team di Vittorio Colao dovesse fallire e gli italiani tra qualche mese si trovassero nella disperazione economica più buia, per grillini e “dem” non ci sarebbero ripari sufficienti per sfuggire alla collera popolare. A quel punto Matteo Salvini e tutti gli altri leader della destra plurale verrebbero portati sugli scudi. E là rimarrebbero per un bel pezzo.

Aggiornato il 14 aprile 2020 alle ore 11:49