Quello statalismo caro a Zingaretti e compagni

In genere si rimprovera a Nicola Zingaretti di parlare sottovoce, di tenere toni bassi, di interloquire secondo un politicamente corretto flebile, dimesso. In parte questa osservazione è vera, ma solo in parte.

Zingaretti è il leader di un partito di sinistra in cui il peso dell’eredità antica si sente soprattutto nelle parole le quali, tuttavia, non tacitano i pensieri del presente e per il futuro di un Governo del quale il Partito Democratico è fondatore ed esecutore.

L’ultimissima uscita, ancorché sommessa nei toni, lo è molto meno nella sostanza, ispirandosi alla “indefettibile” potestà dello Stato e delle sue aziende in una sorta di chiamata a raccolta per risolvere alcuni dei problemi economico-sociali della crisi. Quando, invece, tale chiamata dovrebbe comprendere l’insostituibile mondo della produzione, fino ad ora poco ascoltato.

Rispunta lo statalismo come toccasana di mali che vengono da lontano. È stato subito evidente che la pandemia avrebbe ingigantito problemi preesistenti, che pure erano già così gravi, in Italia e in Europa, da far parlare di una crisi sia economica che, per certi aspetti, di civiltà.

Per la politica tout court, soprattutto per quella di sinistra, la domanda capitale, cioè quella intorno a quale società si voglia costruire il futuro, è in larga parte assente. La conseguenza, tuttavia, non è affatto neutrale, giacché la risposta al quesito, sottovalutato dalla politica, la daranno i processi reali, la ristrutturazione dell’economia, il protagonismo dei suoi grandi attori.

In questo quadro, la riedizione da parte di Zingaretti di un intervento dello Stato, pur necessitato in diverse situazioni, assume un rilievo che va oltre il contingente e risulta quindi inevitabile parlare di invadenza. È una risposta di comodo e, al tempo stesso, pericolosa perché tende a ignorare la stessa complessità della crisi nella convinzione di dare riscontri fattuali facili a dirsi ma sostanzialmente ideologici, dove basta il solo annuncio per suscitare ulteriori preoccupazioni nella società.

Il cenno di Zingaretti a proposito della patrimoniale, si iscrive in un contesto in cui le spinte grilline a quell’interventismo squisitamente reazionario sono la spina dorsale dell’esecutivo, ed è la conferma di una inattendibile ripartenza che non calcola gli effetti della crisi economica e i suoi rimedi, basti pensare a un recentissimo passato nel quali gli unici interventi governativi sono stati il reddito di cittadinanza e quota cento, che stanno inutilmente rastrellando ingenti risorse pubbliche.

Proposte e progetti dell’ultimo Giuseppe Conte rivelano bensì un cauto “eppur si muove”, nel quale è difficile scorgere tracce consistenti dell’avvio di investimenti per le infrastrutture e di provvedimenti efficaci di supporto al rinnovamento tecnologico delle imprese, mentre le vie d’uscita per le grandi crisi aziendali dovrebbero privilegiare l’interventismo auspicato da Zingaretti. In realtà manca un progetto di lungo respiro in grado di dare un traguardo ad un Paese anche moralmente esausto per un lockdown senza fine.

Aggiornato il 01 giugno 2020 alle ore 19:28