Elezioni regionali: conto alla rovescia

Sabato, allo scoccare del mezzodì, è spirato il termine per la presentazione delle candidature alle elezioni nelle regioni che vanno al voto il prossimo 20-21 settembre. Quindi, rien ne va plus. I giochi sono fatti e tutte le ipotesi di alleanze che hanno spopolato sotto gli ombrelloni di questo magro agosto sono finite dentro il cesto dei rifiuti, nella frazione delle chiacchiere inutili. L’auspicato (da Nicola Zingaretti) matrimonio d’interessi tra dem e grillini per fermare l’avanzata delle destre non ci sarà, se si eccettua il laboratorio ligure. E in tanti, a sinistra, tirano un sospiro di sollievo. Avranno comunque un buon pretesto per giustificare le probabili sconfitte che patiranno nelle regioni più contendibili: la Puglia e le Marche. Al Nazareno scrolleranno le spalle dando la colpa del cattivo risultato ai recalcitranti soci pentastellati; dal  Cinque Stelle si leveranno voci autoconsolatorie sul come il suicidio elettorale sia servito al Movimento per sottrarsi alla cannibalizzazione da parte dell’alleato egemone.

Tutti contenti, perché fingeranno che non sia accaduto nulla, che la bocciatura rimediata riguardi le dinamiche locali e non le magnifiche sorti e progressive di quell’insulto alla sovranità popolare che è il Governo del Conte bis. In più, i grillini avranno a disposizione, a meno di un clamoroso colpo di scena oggi non prevedibile, un formidabile argomento per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai risultati delle regionali: la vittoria del Sì al referendum confermativo della legge costituzionale che taglia il numero dei parlamentari. Luigi Di Maio e compagni si attribuiranno il merito di avere inferto, a sentir loro, un colpo mortale alla casta. Che si facciano pure incidere sulle fibbie delle cinture il motto Das Volk mit uns, il popolo è con noi. Non è peccato mortale. In fondo, riguarda solo chi crede alle loro stupidaggini. Raccontata così sembrerebbe che gli esiti elettorali di settembre non contino nulla. Al contrario! Contano, e come. Probabilmente non innescheranno un automatismo per far venire giù l’inossidabile Giuseppe Conte, purtuttavia una vittoria rotonda della destra plurale smuoverà le acque stagnanti della palude Quirinale.

In particolare, un risultato produrrà le maggiori ripercussioni sullo scenario politico nazionale: la sfida in Liguria. Perché? In quella terra tanto bella quanto complicata confluiscono diversi fattori valutativi che concorrono a formare, al netto degli umori del momento, un affidabile indicatore della effettiva volontà popolare. È vero, si vota anche in Campania, Puglia, Marche e Toscana. Ma un successo delle destra plurale in qualcuna di queste regioni sarebbe condizionato dal peso del giudizio negativo dato dagli elettori alle gestioni dei governatori uscenti, tutti targati Partito Democratico.

Si dirà: c’è il Veneto. Lì la questione è diversa. C’è un’egemonia della destra consolidata nei decenni. Luca Zaia non è la novità. Il suo successo, soprattutto se di ampie proporzioni, confermerebbe un gradimento della maggioranza dei cittadini veneti che non si ferma al solo buon governo del presidente uscente ma si estende alla visione di un autonomismo regionale, che si nutre anche di suggestioni indipendentiste, di cui Luca Zaia, e non l’odierna Lega salviniana, è portatore. Ciò è tanto vero che i soliti giornali di regime, pur di attaccare la destra anche in assenza di argomenti sostanziali, hanno tirato fuori un improbabile duello rusticano per la leadership leghista tra un rampante Luca Zaia e un Matteo Salvini dato in parabola discendente. Ovviamente è un’idiozia. Come direbbero quelli bravi: un ballon d’essai. Tra i due non c’è né potrebbe esserci rivalità proprio a causa del forte localismo che connota la visione di Zaia. Lui potrà anche fare il pieno di consensi a casa sua, ma chi lo voterebbe appena varcato il Po? È uno bravo e simpatico ma quando parla degli italiani fa venire in mente la maestra delle elementari quando insegnava a noi bambini le popolazioni italiche dell’epoca preromana: i veneti, i liguri, i sanniti, gli osci, i volsci, gli equi. Ma siamo seri! In termini di proposta politica i due sono complementari, non alternativi: Zaia sta al Veneto come Salvini sta all’Italia.

Resta dunque la Liguria. Giovanni Toti è il governatore uscente. Nel 2015 vinse per il rotto della cuffia. Il 34,5 per cento gli fu sufficiente grazie alla spaccatura determinatasi all’interno del Partito Democratico con la candidatura del dissidente dalla linea renziana Luca Pastorino che portò via un decisivo 9,42 per cento alla candidata dem Raffaella Paita, ferma al 27,85 per cento dei consensi. Inoltre, a sparigliare i giochi della sinistra intervenne la candidatura guastafeste del grillino Salvatore Alice il quale, cavalcando l’onda montante della popolarità del Cinque Stelle, rimediò un lusinghiero 24,85 per cento.

La vittoria inaspettata di Giovanni Toti più che un successo politico sembrò un bizzarro scherzo del destino. La terra di Liguria, in epoca repubblicana, si è connotata come  “regione rossa”, al pari di Emilia-Romagna e Toscana, grazie a una forte presa territoriale del Partito Comunista Italiano, trasmessa in linea diretta ai due rami della discendenza: i cattocomunisti e i multiculturalisti radical-chic. La vittoria di Giovanni Toti, che al tempo della sua prima candidatura veniva assimilato a un cavallo sovrappeso tirato fuori per l’occasione dalla scuderia Mediaset, venne archiviata come un occasionale atto autolesionistico della sinistra, non replicabile nel futuro. Ma nei cinque anni di governo regionale il cavallo di un tempo è cresciuto ed è diventato un apprezzato uomo politico, dimostrando di essere un ottimo amministratore. La gente ha cominciato a credere in lui. Poi c’è stata la tragedia del Ponte Morandi. E in quella pur drammatica circostanza il “Governatore” se l’è cavata egregiamente.

I dem, spiazzati dal crescente appeal del Governatore presso l’opinione pubblica, sono corsi ai ripari facendo un accordo al ribasso con i Cinque Stelle. La trattiva ha partorito una scialba figura di candidato. Ferruccio Sanza, in arte giornalista, è la detestabile espressione di quel pensiero radical-chic d’indole giustizialista che sa essere molesto, quando non diffamatorio verso i nemici politici, ma mai concretamente propositivo. A chiamarsi fuori dall’ammucchiata è stata la frazione renziana che corre con un proprio candidato il quale, visti i sondaggi che penalizzano Italia Viva, dovrebbe attestarsi su numeri da prefisso telefonico. Ora, se Toti dovesse vincere con un risultato largo che supera la somma dei voti ottenuti dai candidati della sinistra in tutte le sue declinazioni, darebbe alle istituzioni un chiaro segnale: la Destra a trazione sovranista con influenze liberali e riformatrici funziona ed è in grado di assicurare un buon governo al Paese. E ciò a giudizio non soltanto dell’elettorato storico di destra, ma anche di parti significative di quello di sinistra che, smaltita la sbornia qualunquista per i Cinque Stelle, ha cominciato a ragionare in modo pragmatico liberandosi del fardello ingombrante dei pregiudizi ideologici.

Ecco perché sentiamo di consigliare a chi volesse appassionarsi alle sfide elettorali di seguire con attenzione lo spoglio delle schede in Liguria. Di là dalle sorti personali del “cavallo” Toti, sarà quella regione la Caporetto della sinistra, come lo fu in negativo nel 2000 per l’ambizioso Massimo D’Alema presidente del Consiglio di un Governo nato da un ribaltone parlamentare. Se, nonostante insieme, grillini e dem le buscassero alla grande mantenere in sella Giuseppe Conte diverrebbe una mission impossible. Anche per il Quirinale.

Aggiornato il 25 agosto 2020 alle ore 10:54