Le confessioni dolenti di Nicola Zingaretti

Nicola Zingaretti, spaventato dalle previsioni del tempo che per i prossimi 20 e 21 settembre danno tempesta su Palazzo Chigi e sul Nazareno, ha scritto, ieri l’altro, una lettera a Repubblica. Non è insolito che il segretario del maggiore partito della sinistra affidi a un quotidiano l’esternazione delle sue preoccupazioni per la condizione del partito che dirige e del Governo che appoggia. D’altro canto, è prassi degli psicanalisti consigliare ai pazienti più inquieti di mettere per iscritto le ansie, le paure e i demoni che ne affollano le menti. La scrittura come terapia della psiche può funzionare con adolescenti alla prima cotta, con casalinghe sull’orlo di una crisi di nervi; può funzionare con anziani al primo stadio dell’Alzheimer, per fissare i ricordi che cominciano a fuggire dalla mente. Francamente, non sappiamo dirvi quanto possa servire a un partito lo sfogo a mezzo stampa del suo leader se non a dare il segnale che quel partito stia per esplodere oppure che sia il suo capo ad essere cotto. Il Pd dalla nascita non è mai stato una caserma, ma un casino sì. Il complesso edipico i dem l’hanno ereditato dai predecessori.

L’istinto primordiale a scegliersi un capo per poi industriarsi a farlo fuori era nel Dna dei giovani comunisti già dalla morte di Enrico Berlinguer. Hanno cominciato con Alessandro Natta, nominato segretario del Partito comunista italiano dopo Berlinguer. Il vecchio burocrate di Botteghe Oscure, nel 1988, apprese dalla televisione, durante un ricovero ospedaliero per un infarto che lo aveva colpito, di aver presentato la lettera di dimissioni da segretario generale del Pci. Peccato che quella lettera lui non l’avesse mai scritta. Gli indiziati del complotto erano i giovani leoni della nuova sinistra post-sovietica. I Massimo D’Alema, i Walter Veltroni, gli Achille Occhetto, tutti personaggi che abbiamo imparato a conoscere a spese dell’interesse nazionale. Allora il “grande rottamatore” era Massimo D’Alema. Il “leader maximo” li ha demoliti tutti fino a quando non è arrivato il “piccolo rottamatore”, al secolo Matteo Renzi, che lo ha asfaltato a sua volta. Con una tradizione trentennale di parricidi rituali Nicola Zingaretti che, a quella stagione di pugnali affilati ha preso parte da giovane militante, non può non essere attrezzato per la difesa. Non potendo sapere in anticipo da quale stanza buia del Nazareno spunterà il sicario che lo pugnalerà, il segretario ha colto tutti, amici e nemici, in contropiede informando l’opinione pubblica della congiura in atto. Se non fosse così, che si dovrebbe pensare di un politico che descrive i compagni di partito che stanno riflettendo se votare “No” al referendum per il taglio dei parlamentari alla stregua di Giuda prezzolati, di ipocriti mandarini dediti ad ogni forma di bizantinismo per destabilizzare il quadro politico attuale? O che sia impazzito di colpo o che sia giunto a odiare i suoi sodali di partito molto più di quanto abbia in antipatia gli avversari politici.

Che per un leader politico non è proprio la cosa migliore da dire, o anche semplicemente da pensare dei suoi compagni d’avventura. Eppure, per Zingaretti la congiura è in atto e attende l’ora X della chiusura delle urne per manifestarsi, nonostante i successi ottenuti dal Governo targato Pd. Ma se le cose per i dem vanno così bene, come raccontano ai media, perché qualcuno dovrebbe farlo fuori? E solo questione che interroga la psicoanalisi? A Zingaretti non è sorto il dubbio che le cose non siano così rosee e che l’anno di coabitazione con i grillini abbia sfibrato il tessuto connettivo che finora ha tenuto insieme il Partito democratico? Probabilmente, i notabili piddini indiziati del complotto hanno avuto tra le mani i sondaggi riservati sulle intenzioni di voto nelle roccaforti “rosse” e si sono fatti prendere dal panico. Già lo scorso gennaio in Emilia-Romagna il Pd ha sfiorato l’affondamento. Ma la buona fama del governatore uscente Stefano Bonaccini, alcune sparate fuori luogo di Matteo Salvini e il crollo verticale di Forza Italia c’hanno messo una pezza.

Tuttavia, la fortuna è un treno che non passa tutti i giorni e il 20-21 settembre potrebbe non ripresentarsi all’appuntamento. Non sbaglia chi pensa che un quasi cappotto inflitto dalla destra al centrosinistra avrebbe un solo capro espiatorio su cui scaricare tutte le responsabilità della sconfitta: lui. Già, perché la mossa di Luigi Di Maio di fare campagna elettorale referendaria per il “Si” trascurando quella per le Regionali ha un evidente scopo tattico: avere qualcosa da festeggiare la sera degli scrutini tale da mettere in secondo piano la batosta che si prepara per il Cinque stelle alle Regionali. Al contrario, i piddini schierati in ordine sparso per il “Si”, per il “No”, per il “Ni e per il “forse” almeno fino all’ultima parola della direzione last minute del prossimo 7 settembre, dovranno accontentarsi dei risultati dei loro candidati alle presidenze regionali. È di palmare evidenza che se il dato elettorale dovesse essere negativo, come i sondaggi lasciano prevedere, il povero Zingaretti si trasformerebbe nel piccione del tiro al piccione. I congiurati non chiederanno subito la sua testa ma cominceranno quella che in politica si chiama strategia di logoramento. Lo terranno per qualche mese sulla graticola prima di costringerlo alla resa con l’indizione di un nuovo congresso del partito. Ma Zingaretti non ci sta a farsi rosolare a fuoco lento e prova a venirne fuori minacciando l’arma atomica. Una sorta di Muoia Sansone con tutti i Filistei! risuona nel finale di lettera: “ll Pd è pronto ad affrontare qualsiasi scenario e, anche personalmente, non ho timore di affrontare elezioni politiche immediate. Quello che è difficile da affrontare sono, invece, le furbizie e i bizantinismi; oppure le ipocrisie di chi sostiene che perdendo le Regionali e vincendo il No al referendum, si potrebbe continuare tutto come prima, senza riflessi sulla tenuta del governo e sulla vita della legislatura”. Tradotto: cari compagni, non vi consento di giocare con me come il gatto con il topo. Se pensate di sostituirmi con Stefano Bonaccini, dando l’opportunità a Matteo Renzi di riprendersi il partito dopo il fallimento dell’avventura di Italia viva, faccio saltare il banco e vi porto alle elezioni, dove sarò io a decidere le liste dei candidati. Se è questo il tenore dei rapporti all’interno del Pd, se è questo il grado di fiducia che c’è tra i suoi dirigenti, non possiamo fare altro che tenere pronta la tessera elettorale. Perché dopo averla usata il 20 e 21 settembre non passerà tempo che dovremo utilizzarla nuovamente. Stavolta per ricucire l’espressione della sovranità popolare con la sua rappresentanza in Parlamento. Per dirla in parole semplici: è giunto il momento per gli italiani di riprendersi le istituzioni democratiche oggi occupate da abusivi in preda al delirio di onnipotenza.

Aggiornato il 02 settembre 2020 alle ore 12:56