A quando il passaggio dal coprifuoco mediatico a quello vero?

Non è come nel calcio che diventano un po’ tutti tecnici della Nazionale. Certo, la pretesa di molti di offrire soluzioni, più o meno spicce, all’offensiva del Covid è scusabile in nome del desiderio sempre più acuto di uscirne. E della paura che domina. Ma in questi ultimi giorni questa voglia si sta progressivamente trasformando in una diffusa protesta interiore, in una rabbia che non può non avere come obiettivo il Governo Conte.

Su questo sfondo, nel quale latitano misure effettive e provvedimenti rapidi e incisivi, la inevitabile grancassa dei media martella quotidianamente, ora dopo ora, un’opinione pubblica la cui attesa di scelte concrete è resa vana, producendo un surplus di ansia mentre il sovraccarico mediatico ne aumenta la paura di fondo. Le prime pagine dei quotidiani e lo spettacolo in diretta tv sono uno specchio nel quale si sommano e si moltiplicano le impennate di positivi e vittime, le previsioni contrastanti sulla soglia del lockdown, le proteste di commercianti e imprenditori, il numero dei contagiati nelle famiglie e fra gli anziani di modo che ognuno, come si dice, le spara più grosse. Il Governo non impone un metodo e così non si sa cosa stia succedendo e cosa succederà, se non il coprifuoco, una parola del tempo di guerra che abbinata al lockdown si spalma sui mezzi di comunicazione, la cui forza spettacolare potenzia non solo la realtà in mostra ma rende spasmodica quell’ansia o speranza per una fuoriuscita sulla cui data, ad aumentarne la crescita, si differenziano le previsioni di medici e scienziati.

Non vi è dubbio che la pressione mediatica giuochi un ruolo di fondo, e le sue frequenti esagerazioni offrono il destro a critiche motivate anche a proposito dell’uso del termine coprifuoco, estratto dagli stessi mass media dal dimenticato vocabolario di guerra. Ma stampa e televisione non stanno girando una fiction, non creano una nuova realtà sia pure nelle esasperazioni e di fronte alle proteste di categorie viste in queste ore davanti al Pirellone, sede della Regione Lombardia. Le Regioni alle quali il Dpcm di Giuseppe Conte ha per molti aspetti delegato compiti spiacevoli e opzioni impopolari, sapendole prive delle forze e dei poteri per farle rispettare, con un Governo che non ha voluto assumere scelte più rigorose, giacché il metodo del premier è quello della indecisione, della incertezza, delle infinite mediazioni, dei rinvii. E che di fronte ad una pandemia a livello mondiale, il presidente del Consiglio abbia ritenuto di affidare importanti interventi alle Regioni, la dice lunga sulle velleità e, soprattutto, sulla impreparazione.

Il fatto è che il tempo dei rinvii e dei ritardi è finito per sempre per un Conte che si era ritagliato un ruolo speciale, quasi esterno alla dinamica politica, legato a una funzione istituzionale accresciuta dallo stato di emergenza e dalla impossibilità per l’opposizione, con i veti del Quirinale, di una crisi al buio. Ma è proprio il non decidere che si sta ritorcendo contro di lui, producendo un disamore da parte dei cittadini che nei sondaggi testimoniano una discesa dei consensi alla quale il ricorso alle pluriquotidiane conferenze stampa rende ancor più evidente un inseguire i problemi di volta in volta, senza mai dare una soluzione. E si resta in attesa del passaggio dal coprifuoco mediatico a quello vero.

Aggiornato il 26 ottobre 2020 alle ore 09:16