Lo Stato non è più innocente

Dire patto Stato-mafia vuol dire in Italia evocare immediatamente il procedimento ancora pendente in secondo grado presso il distretto della Corte d’Appello di Palermo e che vede imputati diversi uomini di primo piano delle istituzioni fra ministri, politici, appartenenti alle forze dell’ordine. Un procedimento fortemente voluto da Pubblici ministeri di Palermo e che coinvolse pure l’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. È notizia di pochi giorni or sono che l’ex ministro, Calogero Mannino, il quale aveva chiesto a suo tempo il rito abbreviato, è stato definitivamente assolto in Cassazione, dopo esserlo già stato in Corte d’Appello. Un lunghissimo calvario terminato da poco dopo molti anni e che però suscita molti interrogativi. Innanzitutto, si dovrà vedere in che modo l’assoluzione di Mannino potrà influire sul corso del processo nei confronti degli altri imputati, accusati del medesimo reato. In secondo luogo, sarebbe necessario capire – cosa per nulla facile – quale possa essere il fondamento giuridico e perfino filosofico delle imputazioni di questo procedimento. Dal punto di vista formale, si capisce subito ciò che c’è da capire e cioè che le imputazioni consistono essenzialmente nell’aver assunto comportamenti che si sono estrinsecati in minacce verso gli organi di governo, impedendone il normale funzionamento.

Quello che invece desta perplessità e che in definitiva appare incomprensibile è invece l’orizzonte di pensiero che si colloca dietro quelle imputazioni, il senso complessivo che esse intendono veicolare ed affermare attraverso una eventuale condanna. Mi pare di poter affermare che quelle imputazioni non vogliano banalmente addossare agli imputati un semplice comportamento minaccioso verso organi governativi, ma pretendano molto di più. Esse, in particolare, intendono censurare pesantemente responsabili politici ed istituzionali che – secondo l’accusa – vennero a patti con la mafia allo scopo di far cessare gli attentati che nel 1993 pullulavano in Italia, concedendo a decine e decine di detenuti per mafia una attenuazione del carcere duro previsto dal celebre articolo 41 bis. Ecco, il venire a patti non viene ammesso, viene visto come un pericoloso cedimento degli organi dello Stato verso la mafia criminale, come una sorta di implicito riconoscimento della identità della consorteria mafiosa con la quale, se opportuno, è possibile patteggiare. Insomma, come dire che lo Stato che patteggia con la mafia, sia pure per uno scopo comprensibile, finisce col prostituirsi, perdendo la propria identità reale. Sta bene, anzi benissimo: tutto vero e sacrosanto. Tuttavia, non possiamo impedire ad una domanda di sorgere e di esigere di essere presa molto sul serio. Che forse – ammesso venisse provato oltre ogni ragionevole dubbio – sarebbe questo il solo ed unico caso di patteggiamento con la mafia? Non ve ne sono stati altri e di non minor rilievo? E non ve ne sono quasi ogni giorno, senza che si susciti alcuno scandalo?

Purtroppo, la risposta a queste domande è affermativa: sì, ci sono stati e ci sono ancora altri numerosi casi di patteggiamento con la mafia, che tuttavia non fanno scalpore e che passano sotto silenzio. Si tratta di tutti i numerosi casi in cui le Procure patteggiano con il collaboratore di giustizia di turno benefici di varia natura (fino a protezioni assai costose per l’erario o al mutamento di identità), per ottenere in cambio dichiarazioni utili alle indagini sulla mafia. Che forse codesti non sono, in tutto e per tutto, patteggiamenti fra lo Stato e la mafia? Con la sola differenza che invece di esser consumati da un ministro o da un generale dei carabinieri, lo sono da un Pubblico ministero della Direzione investigativa antimafia. E cosa ci sarebbe di diverso in questi casi? Perché questo potrebbe fare – ed anzi sarebbe stipendiato per farlo – ciò che invece, se compiuto da quello, sarebbe un grave reato? Che ci sia da qualche parte una esclusiva dei patteggiamenti con la mafia? Che forse il fatto puro e semplice che alcune leggi (le famigerate leggi “premiali”) lo consentano ai Pubblici ministeri, nulla invece prevedendo per ministri e sottosegretari, fornisca ai primi una licenza che invece – per motivi imperscrutabili – ai secondi viene negata? Proprio no. In linea di principio, si tratta di situazioni analoghe che in nulla differiscono nel loro principio costitutivo, trattandosi sempre di organi istituzionali dediti a compromettere con la criminalità.

Si tenga anche conto che anzi mentre i Pubblici ministeri – come si direbbe aulicamente – “certant de lucro captando” ( che vale “militano per ottenere un vantaggio”), al contrario ministri e forze dell’ordine – sempre che il patteggiamento sia provato – “certant de damno vitando” (che vale “militano per evitare un danno”): infatti, i primi concedono benefici ai criminali mafiosi allo scopo di avvantaggiarsi nelle indagini, mentre i secondi avrebbero ottenuto, o tentato di ottenere, la cessazione degli attentati in varie città. Ebbene, per tralatizia tradizione giuridica, chi militi per evitare un danno va sempre preferito a chi lo faccia per lucrare un vantaggio, perché le due posizioni non sono simmetriche. Ne viene che se fra le due bisogna scegliere quale far prevalere, si dovrebbe optare per la prima, in quanto molto più immediata e diretta per la salvezza e la tutela della cosa pubblica: non far saltare per aria la gente in una piazza o in una chiesa è più urgente e certo preliminare rispetto al ritrovamento di un nascondiglio di armi o munizioni. Per entrambe le posizioni, però, vale la medesima censura che per prime le leggi “premiali” hanno attirato drammaticamente su di sé: quella di aver fatto tramontare l’innocenza dello Stato. Uno Stato che patteggia con la criminalità perde infatti la propria innocenza. Anche se a farlo siano i Pubblici ministeri.

Aggiornato il 07 gennaio 2021 alle ore 09:19