Sanremo: Festival vecchio o nuovo? È sempre la stessa storia

È vero che qualsiasi opera umana oscilli fra i due punti cardinali, che per comodità (ma non solo) chiamiamo vecchio e nuovo. La ragione è molto semplice e non necessita di molte spiegazioni, a meno che si pensi che l’interesse dell’autore risieda in alto, sull’Olimpo del bello e del puro e non, invece, su questa terra. Il valore è terreno ma, intendiamoci, non nell’accezione volgare definita terra-terra, bensì secondo la misura sempre eterna dell’acquisito e mai perduto interesse del fruitore. E, nel nostro caso, si tratta dello spettatore. Se le cose stanno così, tutto è lecito perché è possibile (e viceversa). E tutto è necessario per tener fede agli impegni. Semmai, la domanda è un’altra: storicamente è sempre stato sempre così?

I più ritengono, appunto, che sia stato sempre così fin dai tempi di “Grazie dei fiori” sussurrata sensualmente dall’allora regina delle sette note, la leggendaria Nilla Pizzi, che consentiva al Festival di tenere subito alta la bandiera della sua vera e propria reason why, ovvero il compito di rappresentare una rassegna con esame e premiazione della cosiddetta migliore canzone in campo.

Altri tempi, direte voi. Ed è vero, almeno fino all’avvento (con superamento) della melodia (il vecchio) in favore del terzinato e, soprattutto, di Domenico Modugno con la sua rivoluzione. Ma la vera svolta, il più autentico sconvolgimento, nacque con l’arrivo della tv (il nuovo) e della diretta che, da allora, ha dettato i suoi comandamenti. Il fatto è che anche la tv ha subito – e subisce – le sue rivoluzioni, fondate sul principio che tutto è spettacolo e deve fare audience. Dunque, l’adattamento televisivo sanremese non può non essere in linea con un simile precetto, tanto più che il pubblico, la famosa gente, è preparato a questo che, tra l’altro, non è così nuovo. Anzi.

Ma se i comandamenti sono questi, riassumibili – è meglio ricordarlo sempre – nella magica parola dell’audience, degli ascolti a maggior ragione con le interruzioni pubblicitarie (ma non solo), la stessa struttura dello spettacolo deve cambiare. Cosicché, anche e soprattutto Sanremo ha subito un cambiamento, più nella forma che nella sostanza con la vera e propria invenzione, in chiave spettacolare, dell’ospite, sia esso Michail Gorbaciov che il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, entrambi attori di uno show nazional-popolare che dalla loro presenza ha ottenuto una legittimazione internazionale. Ma, in particolar modo, un consolidamento forte dell’audience.

Il discorso si fa lungo ma non vogliamo, in questa occasione, annoiare il lettore (si dice così delle cose serie?). Invece, intendiamo avviarci alla conclusione che questa edizione, gestita da un presentatore-mescolatore d’alta classe, ha confermato l’assunto storico nel solco della miscela, della mélange, della bella confusione, come avrebbe detto Federico Fellini, finendo con il mettere in un angolo le stesse canzoni in palio. Cioè, nientepopodimeno che la raison d’être, recuperando la situazione quando con un colpo, se non di genio, ma di vero amante della storia della canzone, ha aperto la parentesi del vecchio che, diciamolo, funziona sempre se ben scelto.

Il tutto è vero – verissimo in questo caso – quando è apparso quello che è stato definito un trio d’altri tempi, ovvero Gianni Morandi, Massimo Ranieri e Al Bano. Incredibile a dirsi (per i più inesperti), c’è stata una sorta di colpo, di recupero, di svolta di innalzamento. Quando si dice il vecchio.

Aggiornato il 13 febbraio 2023 alle ore 09:54