Il concerto di Varsavia

Moltissimo si è detto del viaggio del premier Giorgia Meloni a Kiev, mentre scarsa attenzione è stata prestata alla tappa intermedia di Varsavia.

Eppure, la sosta programmata del premier italiano nella capitale polacca ha avuto un rilevante significato politico, uguale se non superiore a quello della visita in Ucraina. Per paradosso, si potrebbe affermare che il sostegno pieno e incondizionato dell’Italia alla causa ucraina, recato dalla Meloni in dono al presidente Volodymyr Zelensky, sia figlio dell’intesa che va cementandosi tra i Governi di Roma e di Varsavia più di quanto lo sia della fedeltà del nostro Paese alle indicazioni di politica estera che giungono da Washington, e ancor più della necessità di mostrare compattezza nell’azione geopolitica dell’Unione europea.

La condivisione, da parte della Meloni, delle posizioni fortemente ideologiche del Governo polacco sulla questione ucraina e, più in generale, della sollecitazione di una pressante azione di contrasto alla Russia, restituisce il tentativo di totale saldatura geopolitica tra le due nazioni che è un unicum nelle relazioni bilaterali mai realizzato prima, neanche ai tempi in cui Italia e Polonia erano legate dalla straordinaria presenza di un gigante della Storia qual è stato Giovanni Paolo II.

Ma cos’è che spinge Giorgia Meloni a concretare con l’omologo polacco, Mateusz Morawiecki, una complementarità politico-strategica che di certo non farà esultare di gioia “i padroni del vapore” europeo? Cos’è cambiato dai tempi di Angela Merkel, quando la Polonia sembrava destinata a gravitare, in un ruolo satellitare, nell’orbita della potente Germania? Non v’è dubbio che la Meloni, in politica estera, intenda puntare fortemente sul legame simpatetico con la Polonia. Lo dimostra l’acrobazia dialettica compiuta nella conferenza stampa congiunta con Morawiecki quando, per esaltare il comune destino dei due Paesi, ha estratto dal cilindro un particolare sorprendente, di cui pochi erano a conoscenza: “Noi siamo le uniche due Nazioni al mondo che citano l’altra nel proprio inno nazionale” (Cavolo, è vero! Chi mai ci aveva fatto caso?). La possibile spiegazione dell’innalzamento della sintonia risiede nel reciproco interesse dei due capi di Governo di fare fronte comune per difendersi al meglio dagli effetti penalizzanti dell’egemonia franco-germanica sulle scelte fondamentali dell’Unione europea. Con un di più che riguarda la volontà di Giorgia Meloni di non fermarsi alla vittoria elettorale in sede nazionale ma di aspirare, nel medio periodo, a diventare un player di prima grandezza della politica europea. Non è un ballon d’essai il nostro, ma una valutazione analitica che tuttavia va argomentata.

Dal 2020 la Meloni è presidente del Partito dei Conservatori e riformisti europei. La destra conservatrice, orfana della componente britannica da quando la Gran Bretagna con la Brexit è uscita dall’Ue, conta al Parlamento europeo 74 membri sui 705 che compongono l’Assemblea. I due Paesi maggiormente rappresentati nel gruppo parlamentare sono: la Polonia, con 27 membri – espressione di tre partiti: Diritto e Giustizia (24), Polonia Solidale (2), Partito Repubblicano (1) – e l’Italia, con i 9 europarlamentari di Fratelli d’Italia. Attualmente, il Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei è all’opposizione rispetto alla maggioranza sostenuta dai popolari del Partito Popolare Europeo, dai socialisti dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici e dai liberali di Renew Europe. L’odierno assetto dell’Europarlamento risponde, con tutta evidenza, alla fotografia scattata alle ultime elezioni europee del 2019, in politica un’era geologica fa.

Nel frattempo, nel mondo il vento sta cambiando rapidamente e in alcune realtà nazionali sta crescendo il consenso verso le posizioni conservatrici. È successo nella Repubblica Ceca dove dal 2021 è capo del Governo Petr Fiala, espressione del Partito Democratico Civico che al Parlamento europeo è nel gruppo conservatore dell’Ecr. Potrebbe accadere in autunno in Spagna, dove alla forte ripresa dei popolari spagnoli si accompagna la crescita di Vox, partito della destra conservatrice, in Europa con l’Ecr. La possibilità, oggi più concreta, di cementare un’alleanza di centrodestra potrebbe risultare determinante per riportare il Paese iberico a destra dopo gli anni di potere della sinistra. Le elezioni politiche in Spagna a poco più di sei mesi da quelle per le Europee potrebbero fungere da incubatore per la nascita in ambito continentale della formula di governo del centrodestra (copyright di Silvio Berlusconi), fondata sull’alleanza tra il Ppe e l’Ecr. Se, alle prossime Europee del 2024, l’intesa tra popolari e conservatori dovesse ottenere la maggioranza nell’Europarlamento, la Meloni si troverebbe di fatto a dettare, assieme agli alleati del Ppe, l’agenda europea del prossimo quinquennio nel corso del quale verranno affrontate sfide epocali per gli assetti economici e sociali dell’Ue. Ecco, dunque, quale sia la partita che la leader italiana si prepara a giocare, coltivandola con cura certosina giorno per giorno. Non che gli altri leader europei non se ne siano accorti. Come spiegare altrimenti l’ostilità manifestata, ai limiti della crisi isterica, dal presidente francese Emmanuel Macron verso il nostro premier donna? L’inquilino dell’Eliseo, che non gode di ottima salute politica in patria, finora ha potuto contare su un ruolo decisivo svolto in Europa anche grazie alla presenza della sua formazione politica, Renaissance, inserita nel gruppo europeo dei liberali di Renew europe, in Italia rappresentato dal duo Calenda-Renzi. Se nel 2024 il Ppe dovesse voltargli le spalle preferendo l’asse di centrodestra con i conservatori, l’ambizioso Macron si troverebbe isolato all’opposizione in un organismo europeo controllato da Giorgia Meloni. Uno scenario inaccettabile per il francese, che non perde occasione per attaccare la rivale italiana allo scopo di delegittimarla in vista dei futuri obiettivi che l’intraprendente ex ragazza romana, oggi statista, potrebbe cogliere.

All’interno di tale cornice strategica si colloca la scelta meloniana di forzare il posizionamento dell’Italia al fianco dell’Ucraina sbarrando la strada a ogni possibile opzione subordinata. Scelta evidentemente subìta dagli alleati di Forza Italia e della Lega che avrebbero preferito, da parte del Governo italiano, un atteggiamento più cauto nella critica alla Russia. Aver puntato tutto sulla vittoria dell’Ucraina è una scommessa capitale per la Meloni. Se Zelensky la spunterà, la leader di Fratelli d’Italia potrà raccogliere un cospicuo dividendo politico dalla vittoria dell’Ucraina e spenderlo in Europa per implementare il suo progetto egemonico. Se, sciaguratamente per l’Ucraina e a questo punto anche per noi italiani che ci siamo imbarcati controvoglia in una sorta di crociata anti-russa, l’esito della guerra sul campo dovesse dare ragione a Mosca e il blocco occidentale fosse costretto a un umiliante compromesso per salvare il salvabile sul fronte Est dell’Europa, Giorgia Meloni ne uscirebbe a pezzi e i primi a chiedergliene conto sarebbero proprio quegli alleati che oggi lei ha ridotto al silenzio costringendoli a starle dietro sulla linea del sostegno incondizionato a Kiev. Con metà degli italiani che questa guerra non la capiscono e non la vogliono, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini avrebbero buon gioco a presentarle un conto parecchio salato. Ma questa è l’alea che assume solo chi ha il coraggio di osare. E Giorgia Meloni di coraggio ne ha. Del resto, non fu Virgilio, nell’Eneide, a far dire a Turno, re dei Rutuli, nel rivolgersi ai suoi soldati per spronarli a combattere contro il nemico Enea, reo di avergli soffiato la fidanzata, che Audentes fortuna iuvat?

Aggiornato il 24 febbraio 2023 alle ore 11:11