Il Green deal europeo non è politica ambientale ma (dannosa) politica industriale

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha messo in guardia contro la “crisi di rigetto” che potrebbe derivare dall’eccessiva radicalizzazione delle politiche ambientali. Detto semplicemente: ha ragione.

La riduzione delle emissioni e, in generale, il miglioramento della qualità ambientale sono finalità meritevoli di essere perseguite. L’Europa stessa ha fatto passi da gigante, se è vero che abbiamo (finora) raggiunto tutti i target che ci eravamo assegnati e che abbiamo una performance ambientale, comunque misurata, tra le migliori al mondo. Sarebbe però sbagliato pensare che la sostenibilità non sia uno tra i tanti obiettivi politicamente desiderabili – magari anche il più importante – ma l’unico obiettivo.

Per declinare in modo razionale l’aspirazione a fare dell’Europa l’economia più pulita al mondo – cosa che nei fatti già è – occorre tenere conto di due principi, che soprattutto nel periodo post-Covid Bruxelles sembra aver perso di vista. Da un lato, l’asticella, per poter essere raggiunta, deve essere anzitutto raggiungibile. Data la natura degli investimenti richiesti, è impensabile continuare a rivedere i traguardi. Eppure, nel giro di pochi anni l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030, per citarne soltanto uno, è passato dal 40 al 55 per cento. Questo ha anche allungato i tempi per scrivere i piani che devono indicare come raggiungerlo, e il risultato è che le imprese avranno le informazioni di cui necessitano, se tutto va bene, a metà del 2024: cioè avranno appena un lustro per mettere in atto investimenti colossali. Ci sarà voluto più tempo a scrivere i piani (che sono stati avviati nel 2018) di quanto ne resterà per attuarli.

L’altro aspetto è che, a dispetto della retorica, la politica ambientale europea ha sempre meno a che fare con l’ambiente e sempre più a che vedere con precise scelte di carattere industriale. Ogni volta che si favorisce una tecnologia (per esempio l’auto elettrica) o se ne ostacola un’altra (per esempio il nucleare), si rinuncia a strumenti potenzialmente utili a contrastare il cambiamento climatico. Non importa quanto la strada possa apparire segnata: l’evoluzione tecnologica segue spesso sentieri contorti, per cui ciò che sembrava inutile può improvvisamente diventare necessario. Questo cambio di prospettiva implica spostare l’attenzione dall’obiettivo genuinamente ambientale (tagliare le emissioni) e indirizzare risorse umane, finanziarie e politiche verso altre finalità (per esempio promuovere specifiche tecnologie). Ciò ha non solo implicazioni ambientali – perché può implicare l’abbandono di tecnologie potenzialmente utili – ma anche economiche e sociali, in quanto inevitabilmente comporta la scelta di industrie “vincitrici” e “perdenti” sulla base di criteri, in senso lato, politici.

Mettere in discussione questo approccio, diversamente da quanto ha detto il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans in un’intervista su Repubblica, non significa essere “contro l’ambiente”, ma essere contro una politica industriale per la quale l’ambiente è solo un pretesto.

Aggiornato il 13 luglio 2023 alle ore 10:02