Sulla giustizia si fa sul serio?

Adesso, forse, si fa sul serio. Ci riferiamo alla riforma della giustizia che da sempre è stata, se non la pietra tombale, di certo un suo piccolo ma efficace coperchio, una sua ennesima partita vinta. E questa volta? Il fatto è che abbiamo a che fare con un certo ministro, Carlo Nordio, che è stato uno dei princeps della vicenda giudiziaria, intendendo per vicenda quella complessa e a volte immane mole di incartamenti per persone che, da sempre, incapsulano passo dopo passo il cittadino malcapitato (ho scritto non a caso mal-capitato) fra le spire di una delle più importanti branchie della nostra vita. Perché è lecito sollevare qualche interrogativo sull’operato, ancorché nelle primissime fasi, del pur bravo ministro, già pm e giudice nella sua attività precedente. E in seguito lodevole saggista e giornalista.

La storia è lunga. Ma vive tuttora. Una storia che viene da lontano, dagli anni Novanta del secolo scorso, quando ebbe il battesimo nel monumentale palazzo grigio milanese, dove ha sedo l’Amministrazione della giustizia. La chiamarono e la chiamammo “Mani pulite”. Fu da questo binomio che si annodò una corda intorno a quanti incorsero nelle sue brame (di giustizia, ovviamente) che ha provocato migliaia di “avvisi di garanzia”, centinaia di processi, centinaia di condannati e centinaia di innocenti. In special modo nel settore della Pubblica amministrazione. E migliaia di carriere distrutte. Il manipulitismo – con i suoi eroi ambrosiani sempre in prima pagina (a proposito, che fine ha fatto l’eroico Antonio Di Pietro?) e poi presenti nelle giustizialiste tivù, comprese quelle di Silvio Berlusconi, che finì comunque fra quelle spire – fece dei pubblici ministeri la longa manus di una giustizia immediata, rapida, solennemente predicata contro i potenti e con un crescendo di giustizialismo che già sonnecchiava dentro i cuori italici. E che divenne, rapidamente, una marcia irresistibile per accompagnare i tanti “avvisati” al rogo del maxipalazzo grigio e marmoreo a Porta Vittoria, Milano.

Vi direte: che hanno a che fare giudici e giustizia tanti anni dopo? Semplice: la giustizia divenne un potere a fianco degli altri per dir così normali se non elettivi. Da allora, cioè, l’Amministrazione della giustizia non fu più una funzione dello Stato, ma un nuovo potere del medesimo, assurgendo ben presto a un ruolo irresistibile, nel senso che possedeva le chiavi vitali degli individui, a cominciare dai famigerati avvisi di garanzia per finire alle carceri. Certo, quel potere è meno prepotente e incalzante di prima, grazie anche all’impossibilità storica del famoso repetita iuvant in contesti completamente diversi. E in virtù, anche, di qualche piccola riforma introdotta negli anni, dopo quelli oscuri di quel Presidente della Repubblica, di nome Oscar, che divenne una sorta di lancia avanzata di quel potere, ma del quale non si ricorda più nessuno.

Possiamo dire che le cose sono cambiate, oggi, nell’anno 2024? Ritorniamo all’inizio. Per certi aspetti, c’è la conferma di un cambiamento sol che si faccia mente locale a taluni provvedimenti del ministro Nordio, che finalmente ha posto limiti alle intercettazioni a valanga e altri limiti ha predisposto per gli interventi pubblici, cioè mediatici, ossia difensori della propria tesi (e toga). Mentre l’abolizione dell’abuso d’ufficio sta provocando scontri, anche nella maggioranza. Non c’è quella riforma della giustizia promessa negli ultimi trenta-quaranta anni. Semmai un buon inizio. Come si dice: se son rose…

Aggiornato il 12 gennaio 2024 alle ore 10:13