Destra atlantista. La novità occidentale di Giorgia Meloni

Sul piano delle idee politiche e della conseguente prassi, qualcosa di nuovo sul «fronte occidentale» c’è, e consiste nella complessa e dinamica elaborazione storico-culturale che Giorgia Meloni ha fornito al suo partito e alla coalizione di governo, plasmando una nuova destra che riesce a tenere insieme – amalgamandoli – i valori della tradizione europea con i princìpi dell’alleanza atlantica e del sostegno a Israele, la sovranità nazionale con la necessità storica dell’Ue, la difesa della civiltà europea con il dialogo interculturale, il liberismo con il conservatorismo.

In Europa, la destra ovvero i partiti conservatori (più o meno tradizionalisti, ma non fascisti ovvero partiti neofascisti esclusi) non sono mai stati così forti come in questi ultimi anni, eppure, per svariate ragioni diverse da nazione a nazione, non riescono quasi mai a governare. Poche infatti sono le eccezioni, tra cui spicca l’Italia, dove un anno fa si è insediato un governo di destra, liberalconservatore, sulla base di uno straordinario consenso elettorale. La destra conservatrice e liberale stile-Meloni è oggi temuta e perciò diffamata dalla burocrazia extrapolitica (e sovrapolitica) di Bruxelles, perché è in grado di vincere le competizioni elettorali e di governare con autorevolezza ed efficacia in ambiti nazionali. Ma è molto apprezzata negli ambiti politici europei che fanno riferimento al Partito Popolare Europeo, il quale copre un’estensione politica e culturale molto più ampia ed eterogenea rispetto al concetto di «popolarismo». E quindi questa destra potrebbe benissimo governare l’Unione europea in una coalizione con il Ppe. Ma su ciò saranno i numeri delle prossime elezioni europee a decidere.

Nel nostro orizzonte nazionale, la destra ha acquisito un’autorevolezza indiscutibile, tanto che la fallace, pretestuosa e meschina polemica sul presunto fascismo del Governo Meloni si è, come era ovvio, sgonfiata per mancanza di fondamenti (si veda il brillante libro di Daniele Capezzone, E basta con ’sto fascismo), e la sinistra ha dovuto per lo più variare registro tematico pur mantenendo il metodo (strumentale e cinico). Anche in Europa, la sinistra coglie qualsiasi spunto per attaccare il nostro Governo, come si vede dal recente meschino utilizzo della commemorazione ad Acca Larenzia, ma gli ambienti che contano sul piano dell’alta gestione (non della burocrazia spicciola) e della formazione delle tendenze si erano resi conto da tempo che l’accusa di fascismo era insostenibile.

Appena tre mesi dopo l’insediamento del Governo, il quotidiano tedesco Die Welt aveva liquidato la questione in questi termini: «Il governo italiano guarda chiaramente a destra. Eppure, diversamente da come le viene rimproverato dai critici, Giorgia Meloni non ha trascinato l’Italia nel fascismo. Al contrario, sui temi importanti l’Italia si mantiene al centro. Certamente, il suo orientamento è rigorosamente conservatore, ma per la stabilità dell’Europa questa è una buona notizia. Ne devono prendere atto coloro che vedono in lei una quasi fascista». Si noti: l’orientamento conservatore, cioè di destra, di Giorgia Meloni è utile «alla stabilità dell’Europa». Detto dalla Germania, questo non è un semplice apprezzamento, è una sentenza. Non varrebbe dunque nemmeno la pena di ragionarci ulteriormente, se in Italia non vi fossero emeriti tromboni che, da varie parti, strologano sull’idoneità democratica di Meloni e della sua destra.

Una svolta a destra sicuramente c’è stata, e finalmente direi, dopo decenni di palude politica e culturale in cui si era impantanata anche la coalizione di centrodestra degli anni post-1994. Ma questa sterzata non ha nulla a che fare con il fascismo, appunto, perché la destra meloniana è destra liberalconservatrice, anti-totalitaria, non solo anticomunista ma pure antisocialista e antistatalista, pienamente inserita nel sistema politico dell’atlantismo e in quello socio-economico occidentale: capitalismo e libero mercato, valorizzazione della proprietà privata, libertà personale e nazionale concreta e non meramente enunciata, crescita anziché assistenzialismo.

La sinistra dovrebbe prenderne atto e farsene una ragione. Eppure ci sono ancora molti pezzi della società e perfino delle istituzioni che non vogliono accettare questo dato di fatto e che, per svariati motivi, continuano nell’opera di denigrazione, più o meno ideologizzata, della Presidente del Consiglio, della sua coalizione di governo e del suo partito. Esempio di questo atteggiamento è una recente analisi dell’ex presidente della Consulta Giuliano Amato, che si arrabatta per sostenere che la destra di Giorgia Meloni non avrebbe la qualità di quella di Reagan o Margaret Thatcher, ma sarebbe sostanzialmente neofascista e populista, incapace di diventare «una destra conservatrice come Dio comanda» (fumosa espressione per dire: una destra come vorrebbe la sinistra) e quindi incapace di governare. Per la sinistra la «destra normale» dovrebbe essere un velleitario coacervo eterno sconfitto oppure un possibile gregario della sinistra stessa, o le due cose assieme.

La linea adottata da Meloni, oltre a porsi indiscutibilmente nella linea Reagan-Thatcher, assomiglia alla dottrina Strauss. Come insegnava infatti Franz-Josef Strauss – il mitico capo della Csu – non si lascino spazi a destra, si emargini l’estremismo e si smascheri la pseudodestra, impiegando tutto il dispositivo concettuale di un partito pienamente di destra conservatrice e liberale, senza distanziarsi nemmeno per un istante dal vincolo di amicizia e di alleanza con gli Stati Uniti e con il sistema occidentale. Certo, ciò che valeva per la Germania del secondo dopoguerra non può essere applicato oggi senza correttivi che tengano conto del mutato scenario geopolitico e delle specificità dei partiti conservatori delle varie nazioni, ma la tesi-Strauss rimane valida e può perfettamente essere applicata oggi, come dimostra appunto l’opzione-Meloni, che articola quella tesi su registri originali e innovativi. Questa è la destra occidentale ed europea; ed è perciò che fa paura alla sinistra.

Se le accuse diciamo così centriste agitano il fantasma del fascismo e del populismo, dagli estremi opposti dello schieramento politico arriva un altro genere di accusa: sia il neofascismo sia il neocomunismo criticano la destra meloniana per aver abbandonato i temi «sociali» (come se l’uso della parola «sociale» fosse sufficiente a risolvere i problemi delle fasce meno abbienti), per aver trascurato il popolo, per essere conservatrice (parola aborrita sia dai rivoluzionari neofascisti sia da quelli neobolscevichi), liberale, liberista e filo-atlantista. E in entrambi i casi il giudizio deriva da un delirio ideologico.

Solo per fini obliqui si può sostenere che le scelte di Giorgia Meloni siano antisociali, perché appare evidente che l’attuale Governo, agli antipodi da qualsiasi socialismo, ha una particolare attenzione proprio per ciò che riguarda il sociale. Un esempio fra molti: Caivano. La destra liberalconservatrice infatti non è in contraddizione con la preoccupazione per i settori sociali più disagiati, anzi: solo il liberismo economico può sollevare le loro condizioni materiali, e solo il conservatorismo filo-occidentale può fornire ad essi il fondamento spirituale per la loro crescita.

Che, nella politica ma pure nella cultura, i criteri di azione e i parametri di giudizio fossero esplosi, lo si sapeva da tempo, ma che una pseudodestra neofascista potesse, per paradosso ideologico, convergere con il comunismo più o meno nuovo è una novità, tanto che la costituzione di una formazione politica rosso-bruna sembra oggi ben più che un’ipotesi, che avrebbe un unico precedente nel partito nazi-bolscevico fondato in Russia da Aleksandr Dugin. Perciò, detto a margine, non sarebbe strano vedere proprio Dugin a un prossimo convegno con Gianni Alemanno e Marco Rizzo.

Ma nel caos che caratterizza il nostro confuso presente, sembra che ormai qualsiasi scelleratezza culturale e politica sia possibile; pare che i confini concettuali siano stati abbattuti come i progressisti vorrebbero fare con i confini fra le nazioni; che le differenze qualitative fra le culture, le idee e le persone stesse rischino di non sussistere più, perché non si è più capaci di coglierle; che destra e sinistra siano soltanto segnali stradali e non invece, come molti di noi vorrebbero, indici di due opposte visioni del mondo: conservatorismo liberale da una parte e totalitarismo socialcomunista dall’altro. In questo frullatore ideologico si potrebbe arrivare perfino al connubio tra fascismo e comunismo, che significa unione fra due versioni di un medesimo antiliberalismo antiamericano e anticapitalista.

Fatta la tara dalla retorica antiglobalista che avvolge un movimento che si presenta come popolar-sovranista ma che in realtà è semplicemente fasciocomunista, ciò che resta è dicibile in breve: statalismo pervasivo, antiliberalismo, antiamericanismo, anticapitalismo, antioccidentalismo, anti-Nato, filo-Putin, filo-Palestina, terzomondismo, propensione verso l’asse Russia-Cina-Iran. Questi sono i punti di convergenza tra il neofascismo e il neocomunismo che reclamano libertà ma in realtà vogliono socialismo. Nessuna novità, tutto nel vecchio stile sovietico: si brandisce il vessillo della libertà per nascondere la cultura del gulag, adattato ovviamente alla complessità del mondo occidentale. Finzioni, trappole ideologiche che celano la tagliola dello statalismo.

In tutto ciò non c’è sostanzialmente nulla che sia identificabile con la destra, nell’accezione con cui la destra moderna si è autocompresa nel mondo anglosassone e poi in tutto l’Occidente dopo il 1945, e con cui sta operando Giorgia Meloni, la quale sta svolgendo un difficile esercizio di apertura e saldatura: ci si apre a esperienze non direttamente legate alla destra classica italiana ma strettamente contigue nella visione della società, e si saldano i vari elementi a comporre un orizzonte nuovo e dinamico, imperniato su princìpi e valori tipicamente occidentali, vincolato alle istituzioni che difendono l’Europa e l’Occidente come, per esempio, la Nato. Nell’alessandrinismo postmoderno, la scelta di Giorgia è l’unica – in quanto la migliore – risposta possibile al caos geopolitico, culturale e perfino psichico in cui è immerso oggi l’Occidente.

Persistere dunque in questo orientamento è la risposta non solo più efficace in termini governativi, ma anche la più utile per gli italiani in generale e, parallelamente, la più redditizia in termini elettorali. Se un partito o, come nel caso del governo italiano, una coalizione politica ha come obiettivo il miglioramento della nazione e del suo popolo, e se per perseguirlo ha bisogno di ottenere consenso elettorale, l’attuale maggioranza si sta muovendo nella direzione giusta, sia perché – pur nella grave crisi economica mondiale – si vedono risultati positivi concreti, sia perché le intenzioni di voto continuano ad appoggiare i partiti della coalizione in generale e Fratelli d’Italia in particolare. Questa è la destra che gli italiani vogliono. Il resto è vuoto a perdere.

Aggiornato il 19 gennaio 2024 alle ore 11:42