I mostruosi effetti collaterali dell’idolatria antimafia

Il fine può giustificare i mezzi almeno nella idolatrata lotta alla mafia? A giudicare dalle problematiche tragicomiche cui assistiamo in questi giorni la risposta dovrebbe essere senz’altro negativa.

Per carità, dai tempi degli ultimi tragici attentati del 1992 e del 1993 grazie ai metodi duri, a cominciare dal 41-bis e poi con la legge sui pentiti e le nuove tecnologie di captazione elettronica, i risultati ci sono stati e sono innegabili e definitivi. Tanto che la gente ancora oggi si chiede: non bastava l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa? Abbiamo dovuto vedere ancora dieci anni di sangue con vittime eccellenti del mondo istituzionale per svegliarci?

Fatalmente però il pendolo dell’inconscio collettivo si è mosso dalla sostanziale indifferenza verso il fenomeno mafioso, che almeno per quanto riguarda Cosa nostra è ridotto ai minimi termini oggi come oggi, all’idolatria di massa dei simboli e delle icone mediatiche dell’antimafia. Icone che spesso ci marciano e si fanno i fatti propri e talvolta incappano a loro volta in vergognose vicende e spesso finiscono pure indagate e arrestate. Con effetti collaterali sotto gli occhi di tutti. Dalla gestione scandalosa dei beni sequestrati e confiscati alle cosche alle interdittive preventive, che possono rovinare un imprenditore o anche un quisque de populo sulla base di una lontana parentela o di un sospetto anche a dispetto della proclamata innocenza in una sentenza penale andata in giudicato passando, per il marasma degli accessi a decine di migliaia nelle varie banche dati dell’antiriciclaggio, delle banche e delle varie strutture contro la criminalità organizzata, mettendoci in mezzo anche le iniziative prefettizie e amministrative, si sta vedendo di tutto. Con denunce per metodi troppo disinvolti che stanno estendendosi a macchia d’olio un po’ in seno a quasi tutte le strutture che a vario titolo si occupano di criminalità organizzata. Con episodi da film di Tomas Milian e persino con indagini ai danni di noti investigatori, magari vistosamente calunniati, per molestie sessuali.

Un caos, anzi un casino, che “la metà basta”. Adesso uno potrebbe chiedersi: lo Stato che ci ha messo più di trent’anni per accorgersi che la mafia “esiste” per davvero e che va combattuta à la guerre comme à la guerre, quanto ci metterà a capire che così non può più continuare e che anche nel mondo complicato di queste indagini occorrono regole certe e autorizzazioni firmate, ad esempio, prima di ogni accesso a ogni banca dati?

Perché se poi passasse il messaggio che questo tipo di maniera di fare indagini o pre-indagini nel nome della antimafia è diventata una sorta di religione in mano ad alcuni sacerdoti – che chiedono solo atti di fede nella causa e che non pagano per gli ormai numerosi abusi che poi spesso portano a errori giudiziari – allora, c’è da giurarci, potrebbe innestarsi una precipitosa marcia indietro che di certo finirebbe per non giovare a nessuno. Tanto meno alla lotta alla mafia.

Aggiornato il 25 marzo 2024 alle ore 10:57