Centrosinistra: due mozioni e un fiasco

E vennero i giorni delle mozioni di sfiducia della sinistra a due ministri del Governo Meloni: Matteo Salvini e Daniela Santanchè. L’opposizione presentatasi in ordine sparso – Italia viva ha dato voto contrario alla sfiducia al ministro Santanchè – è riuscita nell’impresa di autoaffondarsi decidendo di affidarsi al moralismo peloso, invece che alla politica con la P maiuscola, per provare a contrastare l’azione di Governo. Errore catastrofico, che ha offerto l’opportunità alla maggioranza di consolidare l’alleanza e, in più, di estendersi occasionalmente oltre il suo perimetro naturale. Non vogliamo entrare nel merito delle mozioni presentate perché – fidatevi sulla parola – non hanno alcun costrutto meritevole di considerazione. Stiamo al dato politico. Nel dibattito in Aula sulla sfiducia a Matteo Salvini il banco si è rovesciato. L’imputato è diventato accusatore e gli accusatori imputati. In particolare, al leader dei Cinque stelle, Giuseppe Conte, è stato chiesto non solo da parlamentari della maggioranza ma anche da parti dell’opposizione con quale credibilità avesse sottoscritto una mozione di sfiducia a Salvini per non aver rotto i rapporti con il partito russo di Vladimir Putin, Russia unita.

In pratica, il bue che chiama cornuto l’asino. Per la maggioranza, e non solo per essa, Conte imputa a Salvini comportamenti e scelte politiche che sono state anche sue quando era alla guida del Paese. Ma non solo il leader Cinque stelle non avrebbe potuto, per i suoi trascorsi filo-russi, scagliare la prima pietra. In realtà, nessuno degli odierni accusatori del leader leghista sarebbe stato legittimato a farlo perché, nei dieci anni trascorsi dall’invasione russa della Crimea, tutti i governanti italiani hanno avuto rapporti con Putin e ne hanno magnificato la figura nell’intento di far crescere la bilancia commerciale tra i due Paesi. Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Carlo Calenda, sono andati a omaggiare lo zar e la sua corte. Per non dire dell’amico Romano (Prodi) che a Mosca godeva – e forse ancora oggi gode – di particolare appeal. Se l’attacco a Salvini si è rivelato un boomerang per gli oppositori, peggio è stato con la mozione di sfiducia alla Santanchè. La richiesta della sua estromissione dalla compagine governativa era basata sulla notizia di un suo coinvolgimento nelle vicissitudini giudiziarie delle società commerciali da lei fondate e dirette prima di diventare ministro del Turismo. I firmatari della mozione hanno battuto sul tasto del moralismo che impedirebbe a una persona raggiunta da un’ombra giudiziaria di ricoprire incarichi pubblici. Una tesi aberrante, che fa strame dei principi fondamentali dello Stato di diritto, a cominciare dalla presunzione d’innocenza.

Per l’opposizione, la signora Santanchè avrebbe dovuto lasciare la poltrona ministeriale non perché giudicata colpevole di un qualche reato connesso all’esercizio della funzione ministeriale ma solo perché indagata per vicende del tutto estranee all’impegno istituzionale. Messa su questo piano, la maggioranza ha avuto gioco fin troppo facile a sostenerne la difesa, motivandola con l’argomentazione più che convincente secondo la quale allontanare un politico chiamato a svolgere un ruolo ministeriale sulla base di una richiesta di rinvio a giudizio inoltrata da una Procura della Repubblica equivarrebbe a concedere alla magistratura il potere inappellabile di fare e disfare i Governi. Argomentazione fatta propria dai parlamentari di Italia viva con l’inevitabile conseguenza che l’opposizione si è andata a schiantare contro un muro se possibile più compatto di quello eretto a difesa di Matteo Salvini. Un autentico capolavoro strategico della coppia Elly Schlein-Giuseppe Conte, con la partecipazione della guest star Carlo Calenda.

Da un punto di vista egoistico, per il centrodestra le due mozioni di sfiducia sono cadute come manna dal cielo per mettere la sordina a qualche scricchiolio che cominciava a udirsi al proprio interno. Dovesse continuare così, il centrodestra governerebbe indisturbato per decenni questa nazione. La potremmo chiudere qui, ma non faremmo bene il nostro lavoro se non dessimo conto di quei flebili scricchiolii che pure sono stati avvertiti provenire dalle fila dei partiti del centrodestra negli ultimi mesi. In particolare sulla vicenda Santanchè. L’improvvida iniziativa parlamentare targata Pd-Cinque stelle-Alleanza Verdi e Sinistra-Azione, ha costretto i colleghi di partito del ministro del Turismo a mostrarsi uniti e compatti nel difenderla. Non avrebbero potuto fare nulla di diverso, visto che i “meloniani” non soffrono della medesima sindrome suicida da cui sono affetti i partiti della sinistra. Tuttavia, un malessere intestino sulla vicenda è presente nella dimensione del subconscio, in forma semi silente, anche in Fratelli d’Italia. Già, perché la Santanchè, più che un problema in sé, finisce per essere la punta di un iceberg di vasta profondità.

E l’iceberg in questo caso è quel sottoinsieme di personalità di spicco e di potere che abita la casa comune di Fratelli d’Italia ma che, nel contempo, reclama la sua autonomia decisionale in forza del peso che ha all’interno della struttura partito e presso l’elettorato. Lo si potrebbe etichettare come il “partito del Nord” che ha l’epicentro nella Milano produttiva e il suo leader carismatico in Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato e azionista di riferimento in Fratelli d’Italia essendone stato il co-fondatore insieme a Giorgia Meloni e a Guido Crosetto. Per stare alla geografia partitica, i mal di pancia sul caso Santanchè si sono avvertiti nella parte di Fratelli d’Italia che, per sintesi giornalistica, si potrebbe definire il “partito romano”. Il non detto nelle risposte dei dirigenti “meloniani” alla domanda su cosa farà il ministro Santanchè nel caso di un rinvio a giudizio è questo: non cosa deciderà lei, ma cosa intenderà fare il “partito del Nord”, se chiederle di fare un passo indietro o se invece dirle di andare avanti ignorando la vicenda giudiziaria e gli attacchi strumentali delle opposizioni. Non è un caso che sulla questione Giorgia Meloni taccia. Sa bene che l’argomento è delicato e non potrà essere una sua decisione d’imperio a determinare la soluzione. Su cosa invece abbiano in mente di fare quelli del “partito del Nord” riguardo all’amica Daniela non è dato sapere vigendo la consegna del silenzio.

Ciononostante, un indizio vi sarebbe. Si è molto discusso a sproposito di un video girato al Twiga in occasione della Pasqua. Le immagini catturate nel locale dei vip della Versilia – di proprietà di Flavio Briatore e della stessa Santanchè prima che ne cedesse le quote al suo compagno di vita Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena – mostrano un rilassato presidente del Senato in lieta compagnia proprio della signora Santanchè. La solita sinistra, che delle dinamiche intestine della destra non ha mai capito granché, l’ha messa sull’abusato piano del giudizio morale. Sbagliando. Il video a modo suo voleva essere un messaggio in bottiglia lanciato nelle acque del Tirreno perché giungesse ai Fratelli d’Italia accampati tra la sponda del Tevere e il Colle Oppio, luogo di antichi fasti della gioventù missina romana. Un messaggio che, a causa delle origini sicule di Ignazio La Russa – nasce a Paternò nella piana catanese – potrebbe financo essere un tantino frainteso. Cosa dice il messaggio? Una roba semplice da capire: Daniela è affare nostro, voi altri del cerchio capitolino statene alla larga. Chi ha orecchie per intendere, intenda. E Giorgia le orecchie le ha ben funzionanti e le drizza ogniqualvolta, anche solo a gesti, parla Ignazio.

Aggiornato il 08 aprile 2024 alle ore 09:43