Salvini, Vannacci e i mandarini della Lega

Il generale Roberto Vannacci fa il suo esordio in politica al fianco di Matteo Salvini, ed è subito bufera. Lui è quello della guerra al mondo alla rovescia, delle parole scomode, del pensiero divergente, del non-ci-sto al politicamente corretto. Un vero uomo di destra, che non ha paura di dire ciò che pensa. Vannacci è pronto a fare all’interno dell’illusionistico mondo della partitocrazia ciò che ha fatto per tutta la vita: l’incursore. In poche ore dal debutto ha lanciato un paio di petardi che hanno letteralmente mandato in tilt il sistema ipocrita del buonismo diffuso all’interno delle istituzioni. La gente ha compreso che Vannacci dice a voce alta ciò che in tanti pensano ma che per quieto vivere evitano di esprimere in pubblico. Essere poi attaccato dai media di certo non lo spaventa essendo stato addestrato a combattere.

Salvini non poteva fare acquisto migliore per salvarsi la pellaccia, visto che da qualche tempo va in giro con un grosso bersaglio stampatogli sulla schiena dagli amici, prima ancora che dai nemici politici. D’altro canto, la caccia al leader leghista è aperta a tutti: avversari politici del campo della sinistra, amici e colleghi del centrodestra, e “affezionati” dirigenti leghisti. In particolare per quest’ultimi il clou della stagione di caccia avrebbe dovuto coincidere con gli esiti delle elezioni europee. Tutto sembrava scorrere tranquillamente nella direzione desiderata: il tonfo elettorale della Lega e l’inevitabile processo interno che avrebbe portato alla defenestrazione del “Capitano” o, in subordine, al commissariamento della sua leadership con la creazione di una compagine di “saggi” pronti ad affiancarlo alla guida del partito. Invece, che ti combina quel satanasso di un Matteo? S’inventa la “mossa del cavallo” per sparigliare i giochi. Il cavallo si chiama Vannacci e la giocata sembra funzionare. Il generale sarà nelle liste della Lega alle Europee. Lui precisa di correre da indipendente, a noi sembra più un battitore libero.

La missione che Salvini gli ha assegnato è degna della sua esperienza da paracadutista incursore del 9° Col Moshin: fighting behind enemy lines. Non c’è per la Lega salviniana, come qualcuno ha voluto far credere, un disperato bisogno di recuperare decimali di punto per sopravanzare Forza Italia nelle urne. Il lavoro immane che il “Capitano” chiede al generale è di recuperare parte di quel consenso che, nel decennio trascorso, dopo essere stato del Cinque Stelle è passato alla Lega e adesso staziona in Fratelli d’Italia. Esiste nel Paese un’istanza sovranista che merita di essere rappresentata. Essa raccoglie e incanala nei percorsi democratici l’insoddisfazione dell’opinione pubblica verso un potere politico che fatica a rimanere in connessione con i bisogni reali delle persone.

È dunque Giorgia Meloni il problema di Matteo Salvini, non gli orfani riconoscenti solo a chiacchiere di un gigante politico quale è stato Silvio Berlusconi. La navicella artigianalmente assemblata di Fratelli d’Italia ha preso il largo nel gradimento degli italiani. Lo ha fatto in nome di un conservatorismo che neanche i soci fondatori hanno ben capito cosa sia, tant’è che ancora siamo in attesa di sapere se debba essere conservatorismo in versione anglosassone ottocentesca o quello hard e con accenti reazionari della versione mitteleuropea del primo Novecento tedesco. Tutto ciò rappresenta un cruccio insopportabile per il barricadiero meneghino, che pure aveva compiuto il miracolo politico di risuscitare una Lega clinicamente morta, risintonizzandola con gli “spiriti animali” di keynesiana memoria, radicati in settori della società dichiaratamente ostili all’ineluttabilità della globalizzazione nei processi di regolazione delle dinamiche comunitarie. I comportamenti delle ultime ore lo dimostrano. Il “Capitano” non ha un emesso un fiato in occasione dell’annuncio della discesa in campo di Antonio Tajani alle Europee, segno che la decisione del capataz forzista non lo angoscia. Al contrario, quand’è che Matteo ha lasciato esplodere la “bomba” Vannacci”? Nel momento in cui tutti i riflettori avrebbero dovuto essere puntati su Giorgia, in procinto di comunicare alla nazione la decisione di esserci sulle schede elettorali del prossimo 8/9 giugno. Tutti i giornali, nell’edizione domenicale, invece di parlare della Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia a Pescara, scelta da sfondo per amplificare l’annuncio della Meloni, hanno aperto sulle dichiarazioni sopra le righe di Vannacci. Un capolavoro, dal punto di vista comunicativo. Si vede che gli anni di insistita frequentazione di casa Verdini hanno insegnato all’apprendista Salvini molte cose riguardo al tatticismo in politica. Ma la missione affidata all’incursore Vannacci ha anche un altro target, non meno importante del principale. È giunto il momento per il “Capitano” di una resa dei conti interna al partito.

Per comprendere la gravità del clima che si respira all’interno della Lega bisogna fare un passo indietro. Quando, un decennio orsono, Salvini portò a buon fine la ricostruzione della Lega dalle ceneri del decotto partito bossiano, definitivamente screditato e relegato ai margini della nuova fase storica, intese caricarsi a bordo quasi per intero il vecchio apparato di partito nella convinzione di poterlo conquistare con l’adesione dell’opinione pubblica al radicale riposizionamento strategico del partito su prospettive sovraniste, identitarie e di destra. Effettivamente i risultati sono arrivati e la casta dei “mandarini” leghisti – nel senso dei potenti funzionari dell’età imperiale cinese e non dei succosi agrumi mediterranei – è rimasta buona e tranquilla a seguire in scia il successo del capo. Un successo giunto a un livello tale da spaventarli. È nostra granitica convinzione, più volte espressa dalle colonne di questo giornale, che il disastro dell’estate del Papeete, nel 2019, fosse stato sì opera del leader ma a condurlo a quell’errore fossero stati i “mandarini”, preoccupati che il “Capitano”, fagocitando i grillini, potesse accantonarli nell’implementazione della nuova destra sovranista. Negli ultimi anni, con la crescita progressiva di Fratelli d’Italia a spese della Lega, la critica dei “mandarini” al loro capo si è fatta più esplicita fino a lasciare intravedere una concreta possibilità di defenestrazione del timoniere. La tappa decisiva preparata dai mandarini era alle viste: il crollo del partito alle Europee. Non avevano messo in conto, i complottisti, il colpo di coda del sacrificato che a fare da capro espiatorio evidentemente non ci sta. Da qui la genialata di reclutare Vannacci. La reazione dei mandarini è stata alquanto scomposta. Hanno cominciato col dire che loro – leghisti “doc” ma dimentichi di essere stati lasciati con le pezze al sedere dal loro osannato padre fondatore – Vannacci non l’avrebbero mai votato. Peccato che non abbiano intuito la perfidia del Salvini “verdinizzato”. Che non votino per il generale alle Europee è ciò che desidera il capo, perché adesso la priorità è la conta interna.

La scommessa è azzardata ma, per come si erano messe le cose nel partito, Salvini non aveva altra scelta che giocarsi il tutto per tutto. Se alle Europee la Lega, grazie alla presenza in lista di Vannacci, guadagnerà voti in misura maggiore di quanti i “mandarini” a questo punto dovranno impegnarsi a procurare, il “Capitano” ne uscirà vincitore e potrà avviare il repulisti, cominciando col far cadere qualche testa di “mandarino”, soprattutto tra quelle cresciute nei sicuri pascoli del Nord. Inoltre, un successo del generale prodotto a scapito di Fratelli d’Italia darebbe il segnale che il pendolo della storia ha ricominciato a oscillare.

Chi ha capito il gioco al massacro predisposto da Salvini è la dirigenza del Partito Democratico che, seppure tentata di infilarsi nella polemica scatenata dalle dichiarazioni di Vannacci per trarne un qualche vantaggio elettorale, ha annusato la trappola e ha sorprendentemente deciso di tenersene alla larga. Ora, i nemici del capo leghista potranno pure intestardirsi a sparare ad alzo zero su Vannacci, ma rischiano di farsi male da soli se pensano di trattare il generale da cavallo pazzo e non invece di guardarlo come il vindice, armato di forbici da potatura, scelto da Salvini per rimettere le cose a posto principalmente dentro alla Lega.

Aggiornato il 02 maggio 2024 alle ore 09:39