Ultimo round delle Regionali d’autunno: un déjà-vu. Un tutto già visto e previsto se non fosse per il dato dell’affluenza che cala ancora. Significativamente. Tuttavia, dolersene non serve a nulla. I partiti dicono di preoccuparsene, di volere porvi rimedio ma, alla prova dei fatti, non combinano granché. E come potrebbero? Il problema è strutturale e richiederebbe una riflessione molto approfondita sulla percezione che i cittadini hanno della politica e, soprattutto, dell’efficacia della loro partecipazione alle dinamiche democratiche attraverso l’esercizio del voto. Ecco a cosa hanno portato anni di consociativismo nel Governo dei territori: la gente non crede più alla differenza tra un’offerta programmatica e l’altra. D’altro canto, non serve spremersi le meningi a cercare una soluzione al calo dell’affluenza visto che si vince anche con l’uno per cento dei votanti.
I partiti – ancor più i candidati – penseranno a scannarsi per accaparrarsi anche quell’unico voto piuttosto che a preoccuparsi di tutti gli altri che nel frattempo saranno rimasti a casa. E poi, non si dice che gli assenti hanno sempre torto? Ciò premesso, restiamo alla realtà che ci consegna un quadro chiarissimo della situazione. Il computo dei risultati nelle sei Regioni (escludiamo la Valle d’Aosta per ovvie regioni di specificità del voto locale) che sono andate al voto negli ultimi due mesi si è concluso con un sostanziale pareggio tra il centrodestra e il centrosinistra: tre a tre. Il dato saliente rilevato è che dappertutto l’elettorato ha confermato il mandato alla coalizione che ha governato nella legislatura precedente. Nessun ribaltamento, nessuno scossone che potrebbe autorizzare gli analisti a leggervi un segnale negativo per l’attuale maggioranza che governa la nazione. C’è stata qualche speranza – o dovremmo dire illusione – che in Campania potesse accadere qualcosa che facesse implodere la coalizione di centrosinistra, alla luce dell’uscita di scena nient’affatto tranquilla di Vincenzo De Luca.
Ma tutto è rientrato e quelle che sembravano minacce del governatore uscente ai suoi alleati si sono rivelate per quelle erano: innocui fuochi d’artificio da campagna elettorale. Guardiamo invece i numeri generali tra e all’interno delle coalizioni. Nel centrosinistra. Il Pd, rispetto alle regionali del 2020, cresce di poco in Campania passando dal 16,90 al 18,41 per cento; di molto in Puglia (17,25 per cento 2020 – 25,91 per cento 2025); significativamente in Veneto (11,92 per cento 2020 – 16,60 per cento 2025). Merito di Elly Schlein e del suo radicalismo progressista? Certo che no. Il partito, nella vita dei territori, c’è anche a dispetto degli avvitamenti in cui si incarta spesso e volentieri la sua dirigenza nazionale. Ai Cinque stelle, checché ne dicano, va da schifo. In Campania, pure avendo sulla carta il candidato governatore, hanno raccolto il 9,12 per cento delle preferenze che è meno di quanto abbiano totalizzato nel 2020 (9,92 per cento) correndo da soli e sull’onda lunga dell’infatuazione degli italiani per il movimento degli “onesti” ragazzi seguaci del comico Beppe Grillo. E sì che la Campania avrebbe dovuto essere la loro roccaforte elettorale. Idem in Puglia.
Oggi il 7,22 per cento contro il 9,86 per cento del 2020: un bel calo nonostante il traino esercitato dalla candidatura del popolarissimo Antonio Decaro sul consenso all’intera coalizione che lo ha sostenuto. In Veneto, il solito pianto greco grillino: l’odierno 2,20 per cento, che è meno del 3,25 per cento del 2020. Ora, se è vero che i risultati elettorali non possono essere trasferiti meccanicisticamente da un piano all’altro del confronto democratico e che le regioni sono una storia il governo della nazione un’altra, la domanda sorge spontanea: ma davvero Giuseppe Conte pensa di tornare a Palazzo Chigi con questi numeri? A domanda retorica, risposta scontata. Tralasciamo l’analisi del voto delle altre componenti della sinistra perché trattasi di parva materia. Una sola curiosità: in Puglia, il tanto sperato effetto Nichi Vendola non ha portato bene ai “compagni” della premiata ditta Nicola Fratoianni & Angelo Bonelli. Alleanza Verdi e Sinistra in Puglia ha racimolato un misero 4,09 per cento. Evidentemente i pugliesi tutta questa nostalgia per il caro Nichi non l’hanno avvertita. Il centrodestra.
Niente di nuovo sotto il sole. In Campania, il partito di Giorgia Meloni raddoppia i voti rispetto alla tornata regionale precedente grazie anche alla presenza in campo di un suo rappresentante in corsa per la presidenza della regione, il sottosegretario agli Esteri Edmondo Cirielli:11,93 per cento nel 2025 – 5,98 per cento nel 2020. Non è un accadimento epocale ma serve alla dirigenza di Fratelli d’Italia per convincersi che la sconfitta sia stata un po’ meno sconfitta di quanto la raccontino i media. Anche Forza Italia raddoppia i consensi rispetto a prima (10,72 per cento contro il 5,16 per cento del 2020). Ma sui motivi di questo exploit, dando uno sguardo ai profili dei candidati scelti, meglio stendere un velo pietoso. La Lega tiene in Campania. Forse a nessuno è estensibile il detto O napulitan s’ fà sicc ma nu mor quanto al controverso Matteo Salvini. Ogni volta si ripete il medesimo stanco motivetto: la Lega è morta, sta per sparire, Salvini è finito. E invece, dati alla mano, è sempre lì viva e vegeta anche nelle aree geografiche lontane dalla sua storica comfort zone nel Nord Italia: oggi il 5,51 per cento, nel 2020 il 5,65 per cento. E in quel tempo il vento spirava più forte in direzione leghista di quanto avvenga adesso. In Puglia, Fratelli d’Italia sale al 18,73 per cento. Nel 2020 aveva il 12,63 per cento, segno che la Puglia ama Giorgia Meloni e lei ricambia.
Forza Italia 9,11 per cento, non lontano dall’8,91 per cento del 2020, una roba di centesimi che provoca un’oscillazione a stento percepita dai sismografi elettorali. La Lega è monocorde, quei voti ha in loco e quei voti mantiene, sebbene subisca una flessione lieve in termini percentuali: 8,04 per cento in calo rispetto al 9,57 per cento del 2020. In Veneto. Lì tutti si aspettavano una sfida all’O.k. korral nel centrodestra. Lega versus Fratelli d’Italia. Effettivamente, gli ingredienti per uno “spaghetti western” c’erano, con la storia della casella della presidenza data per certa al centrodestra che Meloni reclamava per sé mentre Salvini faceva muro nel difendere il feudo elettorale leghista del Veneto, forse l’ultimo rimasto in appannaggio al Carroccio. Bisognava essere ciechi per non vedere che, rimasto Luca Zaia agganciato alla Lega, non ci sarebbe stato alcun sorpasso meloniano ai danni dell’alleato. E infatti, non c’è stata storia. La Lega ha conquistato il 36,28 per cento, Fratelli d’Italia il 18,69 per cento. Forza Italia in Veneto veleggia sottovento al 6,30 per cento.
Cosa se ne ricava da questi numeri? Riguardo al centrodestra, una lezione che risulta ormai stancante ripetere puntualmente all’inverarsi di una verifica elettorale in chiave territoriale. La ribadiamo a beneficio delle nostre cattive coscienze. Se si vuole realmente scardinare il potere delle sinistre nei territori bisogna far nascere e crescere una classe dirigente locale degna di questo nome, fatta di gente onesta, preparata e seria che lavori quotidianamente a fare opposizione alla sinistra non solo nelle sedi istituzionali ma per strada tra la gente. E anche la scelta dello sfidante non può essere presa nell’imminenza della scadenza elettorale e calata dall’alto, da Roma, perché questa cosa la gente non la capisce e la vive con disagio. Fin quando ciò non avverrà, fin quando non vi sarà una rivoluzione culturale all’interno della destra per comprendere che l’ordine gerarchico non può essere la risposta efficace a tutte le problematiche che il governo della complessità pone alla politica, la conquista delle regioni “rosse” resterà un tabù inviolabile per il centrodestra. E di Elly Schlein, che balla, canta e parla del successo in Puglia e Campania come della dimostrazione che una vittoria alle politiche sia alla portata di un centrosinistra disunito su tutto o quasi? Fumo, fumo verboso, soffocante e nauseabondo come solo la demagogia della politica politicante sa essere. Quindi, chiacchiere da bar che lasciano il tempo che trovano. Ben altri saranno gli accordi per intonare la musica che verrà suonata nelle urne del 2027. Prepariamoci ad ascoltarla, senza sforzare l’udito.
Aggiornato il 26 novembre 2025 alle ore 10:46
