“Smitizziamo” l’Intelligenza artificiale

L’enfasi che accompagna ormai da tempo ogni riflessione sulla cosiddetta Intelligenza artificiale, la crescente pervasività del tema in convegni e tavole rotonde, l’attenzione ossessiva che da stampa e televisioni le viene riservata, i bandi di concorso universitari fondati sulle “nuove sfide” che essa di certo presenterà, ebbene tutto questo gigantesco e durevole corredo discorsivo mi sembra generi soltanto confusione ed irritazione. E ciò in forza di alcune brevi osservazioni critiche che mette conto di sintetizzare. Innanzitutto, va detto chiaro e forte che la locuzione di “Intelligenza artificiale” non è altro che un’elegante metafora, tanto falsa quanto pericolosa: falsa, perché essa tutto è tranne che intelligenza; pericolosa, perché capace di generare nei soggetti più impressionabili o meno culturalmente attrezzati l’idea si tratti davvero di sistemi intelligenti.

Infatti, intelligenza viene da “inter-legere”, vale a dire leggere, vedere fra e dentro le cose per come esse davvero sono senza fermarsi alla loro volatile superficie. Propongo perciò di usare in modo decisamente più consono la locuzione di “sussidio tecnologico” per indicare i sistemi oggi tanto di moda. E ciò perché tali sistemi, per quanto raffinati e potenti, sono in grado, assumendo dati e informazioni senza limite alcuno, di conservarne e utilizzarne miliardi, ma senza capire letteralmente nulla di ciò che fanno. Perciò non sono neppure stupidi (perché stupido può essere soltanto chi potenzialmente potrebbe divenire intelligente): sono inutili. Beninteso, non sono inutili per certi tipi di attività di carattere tecnico o esecutivo: oggi essi sono anzi utilissimi e anzi indispensabili per archiviare moltissimi dati e metterli a disposizione, combinandoli, per scopi specifici. Sono invece del tutto inutili quanto alla reale comprensione dei dati che essi pur maneggiano e conservano: oggi, il sistema tecnologico più potente che si trovi al mondo sa e dice moltissime cose – a volte anche bene – ma non comprende nulla di quello che dice.

Questo spiega anche per qual motivo – nonostante gli entusiasti di codeste innovazioni pensino il contrario – questi sussidi tecnologici neppure fra mille anni potranno fare ciò che oggi non sanno, vale a dire comprendere la realtà, compito per definizione riservato a quella intelligenza che essi non possiedono. Qui siamo di fronte non ad un ostacolo di tipo “quantitativo” – tale che si possa predire che fra un certo numero di anni e tramite il progresso che ne derivi, tali sistemi saranno capaci di attingere forme di intelligenza; siamo invece in presenza di un ostacolo di tipo “qualitativo” – tale che la frattura insanabile, da un lato, fra ciò che tali sistemi dicono e, dall’altro, il significato di ciò che abbiano detto rimarrà tale in linea di principio: mai tali sistemi potranno transitare dalla “grammatica” (scienza della combinazione dei segni) alla “semantica” (scienza del significato dei segni).

Per operare questo “salto”, occorre infatti proprio ciò che essi non potranno mai possedere, vale a dire l’intelligenza, il “logos”. Si badi. Non dico qui nulla di nuovo e che non sia perfettamente noto alla coscienza filosofica occidentale ed è strabiliante che quasi tutti lo dimentichino. È stato Immanuel Kant a spiegare infatti che a partire dal “fenomeno” – cioè dai dati empirici – non è possibile attingere il “noumeno” – cioè la comprensione della essenza delle cose: la “metafisica concreta” – secondo il titolo dell’ultimo libro di Massimo Cacciari – rimane preclusa alla “ragion pura”, cioè alla ragione algoritmica tipica dei sussidi tecnologici. Per accedervi, è necessario operare su un livello diverso, quello della “ragion pratica”, cioè della sensibilità, tipica dell’essere umano, ma alla quale i sussidi tecnologici sono condannati a rimanere fatalmente estranei.

Non c’è niente da fare. Ogni tecnologia – per quanto potente e raffinata – può battere soltanto la via dell’accumulo e della combinazione algoritmica dei dati, procedendo dal basso verso l’alto nel tentativo, destinato al fallimento, di giungere alla comprensione del loro significato attraverso sequenze infinite ma inefficaci a tale scopo. Invece, l’autentica comprensione procede in senso inverso dall’alto verso il basso, come accade nell’esecuzione musicale. Il grande interprete di una sonata per pianoforte di Fryderyk Chopin non è chi, dotato di tecnica impareggiabile, tocchi una nota dopo l’altra in maniera impeccabile alla ricerca (vana) del senso della composizione, andando, per dir così, dal basso verso l’alto. È invece chi, padroneggiandone il senso e discendendo dall’alto verso il basso, riesca a restituire ad ogni nota la sua piena verità nella logica complessiva del pentagramma. Mettiamola allora così: i sistemi tecnologici producono sequenze, indifferenti al “senso”. L’intelligenza dice il “senso” (anche) in forma di sequenze. Non è affatto la stessa cosa.

Aggiornato il 18 dicembre 2025 alle ore 10:12