“Un libro più esplosivo di qualsiasi ordigno” dice la striscia di copertina. A me sembra, meno enfaticamente, che “Figlio di Hamas. Dall’Intifada ai servizi segreti israeliani” (Gremese, 270 pagine, 16 euro) sia un libro-verità, non perché le cose che vi si trovano scritte siano necessariamente tutte vere, ma perché contribuisce - narrando la vicenda politica e umana davvero eccezionale, unica, dell’autore - a fornire elementi di valutazione fondamentali per la conoscenza dello scontro mediorientale, in particolare sulla vita quotidiana in Cisgiordania, quella parte della Palestina abitata in larga maggioranza dalla popolazione araba e occupata da Israele dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967. Protagonista di questa storia è Mosab Hassan Yousef, figlio dello sceicco Hassan Yousef una delle sette personalità che fondarono Hamas, nel 1986 a Hebron.

Le prime 80 pagine sembrano scritte da un fazioso estremista palestinese, e in effetti lo sono. Vi si narra del fervore religioso che il padre infonde nel figlio; del carattere pio e mite del genitore e della rabbia nel vederlo maltrattato e arrestato arbitrariamente, senza alcuna accusa specifica; delle difficoltà di vivere per la famiglia rimasta senza sostentamento; delle tante umiliazioni e sofferenze patite. E poi ancora di morti sempre più frequenti, di funerali dei giovani “martiri”, della voglia di ribellarsi e di lottare, anche di uccidere se necessario, fino al primo arresto dello stesso Mosab, caricato su una camionetta e picchiato brutalmente durante il tragitto alla prigione, a 19 anni nel 1996. In un centro speciale Mosab subisce violenze, angherie, torture e interrogatori estenuanti, ma non ha commesso reati gravi e non ha nulla da confessare.

Gli viene offerto di collaborare allo Shin Bet (il servizio segreto interno israeliano) e lui – pieno d’odio - si finge disponibile, con il pensiero recondito di potersi armare e vendicare uccidendo molti nemici. La vera metamorfosi di Mosab avviene per gradi, soprattutto dopo un secondo arresto e la detenzione in un campo di prigionia. Già fuori, aveva notato l’abbandono e la scarsa assistenza alla sua famiglia da parte di Hamas e degli altri gruppi palestinesi, assai più preoccupati di condurre una guerra senza prospettive e senza fine, che di alleviare le sofferenze della popolazione e dei parenti delle vittime. Dentro il carcere egli assiste sgomento all’operato spietato del “servizio d’ordine” di Hamas: rigido controllo poliziesco, pestaggi di chi devia anche solo un minimo dalle ferree regole imposte, torture tremende inflitte sulla base di semplici sospetti, confessioni astruse e abominevoli strappate infilando degli aghi sotto le unghie dei malcapitati, un oscurantismo bigotto che arriva a coprire il televisore se nei cartoni animati appare una “donna” disegnata a capo scoperto. Mosab è al sicuro solo perché il prestigio di suo padre lo mette al riparo da tutto. Però comincia a capire. Vede compagni di prigionia morire per le violenze subite, vede un uomo correre in preda al panico, arrampicarsi sulla recinzione di filo spinato e scavalcarla, lacerato e sanguinante. La guardia dalla torretta punta il mitra.

“Non sparare! Non voglio scappare! Sto scappando da loro!” grida disperato, indicando gli inseguitori di Hamas ansimanti e rabbiosi che lo guardano dall’interno del campo. “Hamas torturava la sua gente! Per quanto mi sforzassi, non potevo trovare una giustificazione a tale orrore. (...) Quello era Hamas? Quello era l’Islam?”. Così Mosab comincia a collaborare con lo Shin Bet. Diventa una super-spia, nome in codice “Principe Verde”. Aiuta Israele a smantellare la struttura terroristica, a catturare i ricercati, a sventare numerosi attentati (siamo alla seconda Intifada, quella dei kamikaze) a eliminare gli assassini più violenti ed efferati. La seconda parte del libro racconta una serie incredibile di episodi sempre più avventurosi, tutti realmente accaduti, accompagnati da tormenti interiori sul padre che ama, sulla religione islamica dalla quale poco alla volta si allontana, su una guerra assurda alimentata da un odio cieco.

Storia e cronaca si intrecciano di continuo: suo padre viene nuovamente arrestato, ma stavolta dall’ANP; Yasser Arafat telefona nelle circostanze più drammatiche e si comporta nella maniera più ambigua; un lungo stillicidio di attentati ed eliminazioni, fino a che la sua coscienza (ora frequenta gruppi cristiani a Gerusalemme) non gli impone di smettere. Chiede e ottiene con una scusa la possibilità di emigrare negli Stati Uniti, dove – dopo alterne vicende – si sistema definitivamente, convertendosi al cristianesimo. Le ultime pagine sono dolenti, dedicate all’amato padre che lo ha ripudiato e ad altre considerazioni di carattere più religioso e personale. “La libertà, un irrefrenabile bisogno di libertà, questo è il vero sentimento alla base della mia storia”. Anche facendo la tara di alcune presumibili omissioni e forzature propagandistiche, “Figlio di Hamas” è un libro interessante e istruttivo. Non solo offre uno spaccato vivido e realistico della condizione dei palestinesi in Cisgiordania, ma soprattutto aiuta a capire le ragioni vere di una guerra infinita, tanto inutile quanto irriducibile.

da "Notizie Radicali"

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:29