Riyadh rischiava di dettar legge

L’Arabia Saudita rifiuta l’offerta di un seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Avete letto bene. Non è l’Onu che bandisce l’Arabia Saudita dal suo organo più importante (di cui, finora, non aveva mai fatto parte), ma è Riyadh che protesta e rifiuta l’offerta. E perché non accettare uno dei posti più influenti del mondo? Perché l’Onu si dimostra insensibile alla causa dei diritti umani. Il blocco dei veti di Cina e Russia su ogni risoluzione sulla Siria ha fatto infuriare la monarchia saudita.

Sarebbe da non crederci, penseremmo a una commedia dell’assurdo, se non stessimo parlando dell’Onu, dove tutto è possibile. L’Arabia Saudita, che lamenta l’insensibilità del Consiglio di Sicurezza sul tema dei diritti umani in Siria, è considerato, a ragion veduta, uno degli Stati più repressivi del mondo, con un record di violazione di ogni diritto individuale. Freedom House, l’autorevole Ong americana che misura la libertà politica e civile di tutti i Paesi del mondo, relega costantemente l’Arabia Saudita nella classifica dei “worst of the worst”, il peggio del peggio, assieme ad altri ameni Paesi quali la Corea del Nord, l’Eritrea, la Somalia, il Turkmenistan.

Tutta la vita dei sauditi è scandita dalla legge coranica nella sua interpretazione più retriva e repressiva dei wahhabiti. Le donne, non solo non possono lavorare, ma non possono neppure guidare, né semplicemente uscire di casa se non accompagnate da un familiare maschio. La pena di morte per decapitazione o anche lapidazione, è regolarmente praticata, dopo processi farsa in cui l’accusato non gode di alcuna garanzia, anche per reati non dimostrabili quali la “stregoneria”. Il proselitismo di culti non islamici è anch’esso reato: basta portare una croce al collo, tenere una Bibbia nella valigia, esporre una stella di David per finire nel mirino della giustizia locale.

I lavoratori stranieri, soprattutto provenienti da India e Sud Est asiatico, sono particolarmente colpiti da queste leggi. Anche quando non lo sono, sono costretti a ritmi e condizioni di lavoro che rasentano la schiavitù. L’Onu, che tanto si era battuta per abolire il regime di apartheid in Sud Africa, forse non nota neppure la totale segregazione che in Arabia Saudita sussiste fra musulmani e i non-musulmani che capitano dalle loro parti. L’area sacra all’Islam della Mecca e Medina è talmente proibita ai non islamici che persino le strade sono separate: ci sono quelle per musulmani e quelle per infedeli, indicate anche in lingua inglese per evitare equivoci.

Per chiunque entri in Arabia Saudita, anche lontano dalla Mecca, non solo si deve indicare la nazionalità e la cittadinanza, ma anche la religione. Gli ebrei non possono entrare, qualunque sia la loro cittadinanza. Questo ameno Paese rischiava di entrare (se non avesse avuto un suo moto di orgoglio) nel Consiglio di Sicurezza, il massimo organo decisionale dell’Onu, i cui voti possono decidere fra la pace e la guerra. In fatto di “sicurezza”, è bene ricordare che Osama Bin Laden era un nobile saudita.

Che i legami fra la monarchia di Riyadh e Al Qaeda sono sempre stati molto ambigui: ufficialmente l’organizzazione è proibita, ma tuttora vige il sospetto che almeno un pezzo della nobiltà locale continui ad essere il principale finanziatore della rete del terrore. Quel che non è un mistero, invece, è il finanziamento, non solo delle moschee più radicali in tutto il mondo, ma anche dei movimenti islamici più criminali della guerra civile siriana. Il neo-formato Esercito Islamico Siriano è considerato il “maggior prodotto d’esportazione saudita”. Ed è costituito da milizie che vogliono esplicitamente instaurare una dittatura islamica a Damasco, oltre ad includere la famosa organizzazione Al Nusrah, affiliata ad Al Qaeda.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:41