L’Iraq è sull’orlo   della frantumazione

L’offensiva dei guerriglieri sunniti dello Stato Islamico del Levante (Isil) che sta sbaragliando l’esercito iracheno e conquistando ampie zone dell’Iraq settentrionale e occidentale, da Ninive a Diyala, si avvicina a Baghdad e pone un serio rischio alla sopravvivenza dell’Iraq centralizzato, come fu creato nel 1920 sulle macerie dell’impero ottomano.

Qualunque sarà l’esito delle operazioni militari sul terreno, dopo l’invio dei trecento consiglieri americani e la chiamata alle armi delle milizie sciite, questo Paese, uscito distrutto da anni di aspri confronti etnici e confessionali, potrebbe al massimo sopravvivere sotto forma confederale, secondo la gran parte degli analisti politici internazionali.

In poche settimane, l’esile equilibrio che teneva ancora unito l’Iraq si è frantumato con l’insurrezione delle regioni sunnite dell’Ovest e del Nord e la pronta mossa dei Curdi ad occupare la regione petrolifera di Kirkuk, rivendicata da anni da Erbil.

Dal punto di vista curdo, la mossa è irreversibile. Kirkuk, la città più ricca di petrolio in tutto il Paese è sede di un governatorato, ma non fa parte del Kurdistan autonomo. I Curdi la considerano il fulcro dell’antica patria divisa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, e sognano di restituirle il ruolo di capitale, trasferendola da Erbil.

Lo status di Kirkuk, con le sue minoranze - assiri, caldei e turcomanni accanto a sciiti e sunniti, antichissimo laboratorio di convivenza - era la questione più spinosa, ma è stata risolta in una notte. Ora i Curdi, grazie alle immense riserve petrolifere della regione di Kirkuk, potranno godere di una totale indipendenza economica da Baghdad e ben difficilmente accetteranno di tornare allo status quo ante. Come ha dichiarato alla Bbc il primo ministro della Regione Autonoma del Kurdistan, Nechirvan Barzani, all’indomani dell’occupazione di Mossul da parte dell’Isil e di Kirkuk dai peshmerga curdi: “Non penso proprio che l’Iraq possa tornare come prima, anzi è praticamente impossibile”, arrivando perfino a dire che la migliore soluzione possibile per l’Iraq è ora una confederazione, con una regione autonoma sunnita, sul modello di quella che già esiste in Kurdistan. Concordano con Barzani gran parte degli esperti della regione; gli ultimi eventi, con l’esplodere del fenomeno Isil e le mosse curde, spingono decisamente verso una divisione formale o informale dell’Iraq.

L’attuale Iraq, nato nel 1920 sotto mandato britannico e indipendente nel 1932, è sempre stato centralizzato fino ad oggi, pur con la creazione nel 1991 della regione autonoma curda; per gli analisti internazionali, la situazione attuale ha le sue origini nella invasione statunitense del 2003, che rovesciò il dittatore sunnita Saddam Hussein senza porre solide basi per una nuova organizzazione del Paese. Nel maggio del 2003, il “proconsole” americano, Paul Bremer, decretando la “de-baathificazione” (il partito Baath era al potere dal golpe del 1963) della società e lo smantellamento dell’esercito, svuotò di fatto le istituzioni irachene. Il passaggio di potere dai sunniti (che erano l’élite al potere sotto Saddam) agli sciiti ha complicato il quadro. L’Iraq ha avviato una totale opera di ricostruzione delle strutture statali, che non è mai terminata. I sunniti sono stati esclusi da quasi tutte le posizioni apicali e hanno iniziato a covare sentimenti di insoddisfazione e rivalsa nei confronti degli sciiti al potere.

Artefice principale di questa politica è stato il primo ministro Nuri al-Maliki, su cui ora si concentrano le maggiori critiche; sciita, alla guida del governo dal dicembre del 2005, Maliki ha condotto una politica discriminatoria contro la minoranza sunnita, ha centralizzato completamente il potere e ha governato autocraticamente, esacerbando gli animi e scontentando un po’ tutti, curdi e sunniti in primo luogo. Secondo Ruba Husari, direttore di Iraq Insight, uno dei maggiori think tank sull’Iraq, “gli americani hanno smantellato le istituzioni, ma Maliki entrerà nella storia come quello che ha disgregato il Paese”.

Anche secondo Tony Blair, il premier inglese ai tempi della guerra in Iraq che defenestrò Saddam, le cause della crisi sono nel settarismo del governo Maliki, che ha compromesso l’opportunità di costruire un Iraq coeso. A giudizio di Blair, il mancato utilizzo del denaro del petrolio per ricostruire il Paese, la diffusa corruzione a tutti i livelli di potere e le debolezze delle forze di sicurezza irachene, hanno portato all’alienazione della comunità sunnita e al disgregamento dell’unità statale. Ci sarà ora anche un dibattito sul ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq avvenuto troppo presto, nel dicembre 2011, quando ancora le nuove istituzioni irachene apparivano troppo fragili.

Dello stesso parere l’ex inviato speciale per l’Iraq del segretario generale dell’Onu, Brahimi, secondo il quale il Paese uscito dall’invasione americana era come una ferita aperta che si è infettata piano piano. Già nell’aprile del 2004 c’erano tutti gli ingredienti per una guerra civile, secondo il diplomatico algerino. Anche i sunniti più moderati, ormai completamente marginalizzati dal regime di Baghdad, hanno scelto di sostenere gli estremisti dell’Isil, in virtù dell’adagio “il nemico del mio nemico è mio amico”.

Secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite a Baghdad, Nickolay Mladenov, la crisi apertasi negli ultimi mesi è la più grave dalla fine della occupazione statunitense e rappresenta una minaccia vitale per l’unità dell’Iraq.

Il futuro politico, economico e petrolifero dell’Iraq dipende ora dalla capacità e dalla volontà delle varie componenti politiche, sciiti, sunniti e curdi, di mantenere l'integrità del paese prima che la nave affondi completamente, ma è ragionevole dubitarne. Quando, e chissà quanto tempo ci vorrà, le armi verranno deposte, occorreranno le migliori abilità diplomatiche per ridisegnare l’Iraq del futuro: esso potrà ovviamente esistere su base nazionale, ma con un sistema federale o confederale che dovrà trovare il consenso di tutte le parti interessate. La nuova Costituzione, approvata nel 2005, lo permette. Certo, bisognerà fare i conti con la realtà di questi giorni; le divisioni tra etnie e confessioni sono diventate troppo nette. Le frontiere interne che esistevano di fatto, ai tempi di Saddam e poi stravolte con l’arrivo del nuovo regime nel 2003 sono cambiate ed è assai probabile che diventino le separazioni de jure nei prossimi anni.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49