Hamas: carenza   di immaginazione

Mentre il più recente conflitto tra Israele e Hamas entra nella sua quarta settimana, sono uscite fuori delle prevedibili storie da parte di certi diplomatici e giornalisti. In realtà, però, nessuna delle loro versioni si avvicina alla verità.

È pigrizia intellettuale, per non dire pericoloso, sedersi in tribuna e asserire che le due parti in conflitto - la prima, una nazione democratica che non chiede altro a Gaza se non un confine tranquillo, e la seconda, un regime terroristico il cui Statuto chiede l’eliminazione di Israele - siano poco più che immagini speculari l’una dell’altra. Giudicare basandosi sul conto delle vittime avrebbe fatto sì che la Germania Nazista risultasse la vittima sfortunata e gli Stati Uniti il brutale aggressore. Tra le vittime civili di quella guerra, il conto è di quasi 100 tedeschi morti per ogni americano ucciso. Anche tra i soldati le cifre sono enormemente (e fortunatamente) sbilanciate.

In tutte queste discussioni, salta agli occhi la mancanza della capacità da parte di alcuni di comprendere la vera natura di Hamas. Non dovrebbe essere così difficile. Dopotutto, Hamas è praticamente un libro aperto. Eppure in troppi, dal ministero degli Esteri del Brasile fino alla Bbc, non sono interessati a leggere le pagine di quel libro. Preferiscono invece basarsi sui classici metodi del bravo osservatore quali la cecità, la negazione, il transfert. Si rifiutano di vedere, ma questo non li frena dal giudicare. Oppure guardano, ma non permettono che la realtà davanti ai loro occhi li persuada. Al contrario, preferiscono rimanere comodi circondati dalle loro credenze, le loro ideologie, le loro presupposizioni. Oppure sono vittime del transfert e credono che chiunque si comporterebbe allo stesso modo nelle stesse circostanze, non dando alcuna possibilità a comportamenti alternativi.

Un esempio: un estraneo potrebbe dire che non manderebbe mai i suoi bambini in una scuola che viene anche usata come deposito di armi. Sarebbe impensabile. E di conseguenza nessuno, madre o padre che sia, lo farebbe. Perciò, l’asserzione israeliana che Hamas utilizza le scuole come deposito di armi può solo essere pura propaganda. Dopotutto, nessun genitore di Gaza con la testa a posto farebbe mai qualcosa che lei e tutte le sue amiche a Boston, Berlino o Brasilia si sognerebbero mai di fare. Ma è proprio questa carenza di immaginazione alla radice del problema; questa riluttanza o incapacità di accettare una modalità di comportamento così contraria alla nostra che mette alla prova i nostri presupposti più basilari. Ovviamente tutto questo è già accaduto.

L’esempio storico più lampante: da quando Hitler prese il potere nel gennaio 1933 fino all’invasione della Polonia nel settembre 1939, per 80 mesi l’Occidente fu sottoposto ad una carrellata di governi, studiosi e giornalisti che, semplicemente, non potevano o non volevano capire quale fosse la vera natura e le vere intenzioni del Terzo Reich. Anche in quel caso, le intenzioni di Hitler erano sotto gli occhi di tutti, scritte in “Mein Kampf” e nei suoi discorsi, ma le sue parole venivano troppo spesso ignorate, minimizzate o considerate iperbole. Quasi sessanta milioni di persone pagarono questa carenza d’immaginazione con la vita, per non parlare dei feriti, dei rifugiati e degli esiliati.

Lo Statuto di Hamas chiede la distruzione di Israele, e vi sono scritte cose molto interessanti a proposito degli ebrei, dell’Occidente, delle donne, e così via. Dovrebbe essere una lettura obbligata per chiunque decida di commentare sul conflitto tra Israele e Hamas. Quel che è scritto in quel documento è insignificante, è irrilevante, è una distrazione, o potrebbe al contrario essere una chiave per capire cosa sta succedendo? Seguendo lo stesso principio, Hamas utilizza scuole, tra cui quelle gestite dalle Nazioni Unite, per nascondere armamenti. È per questo che Israele non ha altra scelta se non quella di entrare in questi edifici. Il fatto che mettere nascondigli di armi in questi posti superi l’immaginazione di molti persone al di fuori di Gaza non è in discussione. È una realtà con la quale deve confrontarsi Israele. E la stessa cosa riguarda ospedali ed ambulanze. Non ci passerebbe neanche per la testa - anzi, consideriamo il fatto in sé assolutamente ripugnante - di violare la sacralità di luoghi preposti a cure mediche utilizzandoli come quartier generali, mezzi di trasporto o depositi a scopi terroristici. Ma è esattamente questo quello che fa Hamas, costringendo così Israele ad agire.

E per quanto riguarda i luoghi di culto? Ma perché essere così generici? Dopotutto non ci sono sinagoghe a Gaza e rimangono solo una manciata di chiese, visto che i cristiani hanno sofferto alle mani dei jihadisti al potere. Ovviamente quindi, anche le moschee vengono utilizzate come parte integrante dell’infrastruttura terroristica. Ma come può essere? Per noi, i luoghi di culto di qualunque religione sono considerati luoghi sacri. Deve trattarsi di certo di un’invenzione israeliana. Ma non lo è per niente. Al contrario, ci sono prove abbondanti dell’utilizzo di moschee da parte di Hamas nella guerra contro Israele.

Lo scaltro apparato di pubbliche relazioni di Hamas assieme alla comunità mediatica e diplomatica alla loro mercé, a volte sotto minaccia, si affannano a mostrare i danni provocati a scuole, moschee ed ospedali come se qualunque distruzione fosse automaticamente prova delle colpe di Israele.

E l’utilizzo di civili nella campagna di Hamas? Ancora una volta, pensare che donne e bambini possano essere sfruttati come scudi umani, anzi piazzati volenti o nolenti nei reticoli del conflitto per proteggere i dirigenti di Hamas e, ovviamente, per attrarre la comprensione mondiale, specialmente se questa popolazione vulnerabile diventa parte dell’elenco delle vittime, supera la nostra immaginazione. In fondo, il nostro angolo di mondo riguarda l’affermazione della vita. È questo ciò che definisce il nostro essere, l’essenza della società che aspiriamo a costruire, e il modo in cui ci comportiamo. E anche se a volte non ci riusciamo, questo non cambia le nostre intenzioni. Come potremmo allora entrare mentalmente in un altro luogo - il mondo di Hamas e degli altri membri dell’albero genealogico jihadista, da Boka Haram a Hezbollah, dalla Jihad Islamica ad Al Qaeda - dove si sogna la morte e si desidera il “martirio” e si sente il richiamo della vita nell’aldilà?

Le nazioni, le istituzioni e gli individui che si trovano lontani dal quei luoghi saranno fortunati geograficamente, ma hanno interessi profondi, che se ne accorgano o meno, nel successo di Israele. Quel che sta fronteggiando Israele sta ora venendo a galla anche in altri luoghi. Ad esempio, le nazioni europee si stanno accorgendo adesso che migliaia dei propri cittadini stanno combattendo in Siria e forse anche in Iraq. Molti un giorno torneranno in Inghilterra, in Francia e in Germania. E cosa faranno dopo? Almeno una risposta l’abbiamo già trovata. Il sospettato dell’omicidio a maggio di quattro persone al Museo Ebraico di Bruxelles era un residente francese che aveva appunto combattuto in Siria.

Israele si trova in prima linea contro un avversario che pochi capiscono. È un nemico che utilizza regole completamente diverse. Di conseguenza, Israele deve adattarsi per sopravvivere e realizzare la funzione più basilare di qualunque governo: la protezione dei propri cittadini. Alcuni possono soffrire di carenza d’immaginazione. Israele, tuttavia, non può.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (www.ajc.org)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:48