E adesso tutti   vanno contro l’Isis

Il califfato islamico che si è esteso dall’Iraq alla Siria spaventa il mondo. Fa paura ad iraniani, arabi, occidentali, turchi, curdi, slavi, cattolici, protestanti, sunniti, sciiti, alawiti, ebrei, yazidi e drusi. E più li spaventa, tanto più il califfato si sente forte. Più i media e i leader di tutto il mondo lo definiscono barbaro, per la sua politica brutale e sanguinaria, più l’Isis si comporta come tale. Più i suoi denigratori arabi e musulmani lo accusano, per le sue efferatezze, di tradire i dettami del Profeta Maometto, più i seguaci e sostenitori dell’Isis sono convinti di difendere e combattere per il vero Islam.

Più le decapitazioni dei giornalisti occidentali vengono diffuse sui circuiti televisivi di tutto il mondo, scatenando reazioni di raccapriccio e disgusto nei quattro angoli del globo, più i guerriglieri jihadisti si gonfiano di superbia e trovano incoraggiamento a commetterne di nuove. Più la comunità internazionale si organizza e si rafforza per combattere insieme l’esercito islamico, sempre più giovani europei e arabi si sentono attratti dal jihadismo e in numero crescente si arruolano nelle file dell’Isis. Come contrastare allora il fenomeno jihadista senza dargli occasione di rafforzarsi?

Come combattere sul campo un'organizzazione terroristica che attrae schiere sempre più numerose di giovani volontari, da occidente ad oriente, folgorati dalla sua immagine mitizzata e dalla retorica anacronistica di Al Bhagdadi e dei suoi solidali ? Il compito non è facile e non può essere solo demandato agli attacchi aerei delle forze statunitensi o alle sterili azioni militari dei malandati eserciti governativi siriani e iracheni. La reazione della comunità internazionale deve essere invece capillare, partendo dalla comprensione delle origini profonde del fenomeno.

Nelle città e cittadine della Siria e dell’Iraq occupate, il Califfato islamico si è insinuato in quasi ogni aspetto della vita quotidiana; gli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi sovrintendono la fornitura di energia elettrica e acqua, pagano gli stipendi, controllano il traffico, e funziona quasi tutto, dalle panetterie, alle banche, alle scuole, ai tribunali e alle moschee. La capacità efficiente e pragmatica nel governare fa guadagnare all’Isis nelle zone occupate sempre maggiore consenso, specie tra le fasce più povere della popolazione e tra i giovani. La provincia di Raqqa, in Siria, è una sorta di capitale del Califfato; caduta sotto controllo delle forze dell’Isis un anno fa, nella provincia è stata da subito applicata nella formula più conservatrice la legge islamica.

Chi si è opposto al nuovo regime è stato ucciso o è fuggito in Turchia. L'alcol è stato vietato. I negozi rispettano orari di apertura fissati dal governo della città e comunque restano chiusi la sera. La comunicazione con il mondo esterno, comprese le vicine città, è consentita solo attraverso il media center ISIS. Chi ha accettato, invece, il nuovo corso e prestato fedeltà al Califfato viene assunto nei servizi della città; e così un ex impiegato pubblico è ora responsabile dei mulini e della distribuzione di farina per i panifici della città e i dipendenti della importante diga di Raqqa, che fornisce energia elettrica e acqua, sono rimasti ai loro posti. Spesso a coordinare i servizi pubblici ci sono esperti venuti da altri paesi, in particolare dal Nord Africa e dall’Europa.

Il responsabile delle telecomunicazioni di Raqqa, per esempio, è un tunisino con tanto di master universitario in materia. Al Baghdadi ha voluto separare le operazioni militari dall’amministrazione civile, assegnando i guerriglieri solo nella polizia ed impiegando i civili che hanno accettato l’Isis negli altri servizi; ha strutturato la provincia in distretti, chiamati “walis” come negli altri paesi arabi, dimostrando di possedere una buona dimestichezza con l’amministrazione pubblica. Ha creato il ministero islamico delle finanze che paga uno stipendio di circa quattrocento dollari a combattenti e impiegati civili. Agli uomini armati è previsto anche vitto e alloggio. Le vedove di miliziani dell’Isis ricevono una pensione di cento dollari, più altri cento per ogni figlio a carico.

I prezzi al dettaglio sono mantenuti bassi e controllati costantemente dagli uomini del nuovo califfo. I commercianti che manipolano i prezzi vengono costretti a chiudere. Il califfato ha inoltre imposto tasse islamiche, la zakat, sui commercianti e le famiglie benestanti. Gli analisti stimano che l’Isis riscuota decine di milioni di dollari dal petrolio che estrae dai pozzi controllati in Siria e Iraq e che vende a uomini d'affari turchi e iracheni; l’altra fonte di entrate proviene dai rapimenti di ricchi locali, sempre più frequenti. L’Isis è stato definito erede di Al Qaeda, dal quale sarebbe stato generato e si sarebbe ispirato; secondo molti analisti internazionali, sapienti conoscitori di quella realtà, in realtà sarebbe ben più estesa la motivazione di partenza e le ragioni del successo del movimento islamista in medio oriente.

Decenni di ingiustizie sociali, leader politici arabi dispotici, falsi e corrotti, lontani anni luce dagli interessi e dai bisogni fondamentali di milioni di persone abbandonate nella miseria e nella decadenza economica e culturale, che non hanno offerto alcun avvenire alle giovani generazioni, accecati solo dagli interessi personali e dalla sete di potere, anche a costo di uccidere e reprimere nel sangue per raggiungere i propri obiettivi; sarebbero queste le vere basi di partenza, le cause scatenanti che hanno dato origine alla ribellione e alla risposta rabbiosa dei guerriglieri jihadisti e ne hanno rafforzato le loro fila.

Per combattere ora il mostro che si è creato, per arginare il consenso che guadagna, nelle zone occupate e all’estero e per fermare l’arruolamento di nuovi jihadisti, molti, in Medio-oriente e altrove, devono ammettere le proprie colpe e la propria responsabilità nell’averlo generato . Un primo responsabile è senza dubbio il regime di Bachar el Assad in Siria; nel tentativo di delegittimare i suoi avversari moderati che stavano conquistando terreno e minacciavano l’esistenza stessa del dittatore e della sua cerchia di fedelissimi, Bachar e i suoi servizi segreti hanno favorito, nel corso della guerra civile che insanguina da tre anni la Siria, l'ascesa del movimento dell’Isis.

Secondo alcuni, sarebbero arrivati a stringere patti di non belligeranza con i miliziani di Al Baghdadi, lasciandogli spazi di manovra, per concentrarsi invece sulla repressione delle forze secessioniste dei moderati e filo occidentali. Il governo sciita e filo-iraniano dell’ex primo ministro Maliki in Iraq è anch’egli fortemente responsabile dell’ascesa dell’Isis; la sua politica repressiva, segregatoria e discrimatoria nei confronti dei sunniti iracheni ha generato odio e rancore in molti di questi, tra i quali numerosi ex militari dell’esercito di Saddam Hussein, che hanno rapidamente ingrossato le fila dell’Isis e alimentato la ribellione nel nord dell’Iraq, a prevalenza sunnita, degli ultimi mesi.

Responsabili sono anche le monarchie petrolifere del Golfo e la Turchia per aver utilizzato, finanziato, armato ed addestrato le organizzazioni estremiste sunnite con lo scopo di rompere l'arco sciita, che copriva Iraq, Siria e Libano, e che aveva in Teheran la propria regia. Da quei movimenti trae origine l’Isis. Responsabile è l'Iran che per le sue ambizioni di egemonia regionale, per l’ingerenza negli affari interni dei paesi arabi vicini, infiltrando centinaia di agenti segreti nelle comunità sciite, ha messo in serio pericolo la stabilità regionale e ha spinto i governi sunniti a finanziare movimenti che si sono poi rivelati terreno fertile per i jihadisti e gli estremisti islamici.

Responsabili sono gli Stati Uniti, per la loro incapacità politica di prevedere il fenomeno islamista, per l’imperizia diplomatica negli affari medio-orientali e da ultimo per la loro gestione disastrosa e caotica del caso iracheno. Responsabile è infine anche l’Europa, soggetto politico troppo debole, priva di una politica estera medio-orientale coerente, spesso oscillante tra il dialogo “interessato” con governi dittatoriali e il sostegno pallido a movimenti di liberazione. Solo se la reazione armata della comunità internazionale contro l’Isis sarà accompagnata da una strategia di sviluppo economico e politico delle regioni depresse del medio-oriente e da un vero, disinteressato sostegno alle popolazioni più deboli ed indifese di quell’area sensibile, potremo sperare di debellare il califfato, arginare l’estremismo islamico e riaffermare la pace e la stabilità di una regione vitale per la nostra stessa esistenza.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:43