Il futuro incerto dell’Afghanistan

Il lungo braccio di ferro che oppone i due candidati alla presidenza dell’Afghanistan rischia di far ripiombare il paese in una drammatica instabilità politica e lasciare facile spazio per un ritorno dei Talebani.

Il primo turno elettorale, lo scorso 5 aprile, aveva registrato una grande affluenza alle urne di quasi sette milioni di persone, anche molte donne, su un totale di 12 milioni aventi diritto al voto, che avevano sfidato le minacce talebane in un clima di forte insicurezza, ma nessuno degli otto candidati aveva raggiunto il 50 per cento dei voti, come previsto dalla costituzione. Il 14 giugno si è quindi svolto il ballottaggio tra i due nomi più votati, il cinquantatreenne Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri e il sessantaquattrenne Ashraf Ghani Ahmadzai, ex ministro delle Finanze.

Malgrado siano passati tre mesi dal voto, i risultati non sono ancora stati ufficializzati; la commissione indipendente elettorale, dopo un preliminare scrutinio delle schede del ballottaggio, assegnerebbe la vittoria a Ghani con il 56 per cento dei voti; Abdullah si assesterebbe al 44 per cento. Abdullah ha però immediatamente contestato il risultato, accusando brogli elettorali. In effetti, al primo turno Abdullah aveva ottenuto il 45 per cento dei voti, mentre il suo sfidante era arrivato solo al 32 per cento.

Ghani ha ribattuto che molti suoi sostenitori, di etnia pashtun, che avevano disertato le urne al primo turno si sono recati in massa al voto al ballottaggio. Abdullah ha sostenuto che anche i dati ufficiali sull'affluenza al secondo turno sarebbero falsi e che avrebbero votato molti meno elettori degli 8 milioni dichiarati. Le accuse reciproche hanno fatto quindi piombare nel caos il paese, con episodici scontri armati, in zone periferiche tribali, tra le opposte fazioni.

Ashraf Ghani, ex ministro delle finanze, con un passato alla Banca Mondiale, è di etnia pashtun, il gruppo etnico di maggioranza, come Hamid Karzai, mentre Abdullah Abdullah rappresenta i non pashtun, in particolare i tagiki. Sia Ghani che Abdullah si erano già candidati nelle scorse elezioni presidenziali in competizione con Karzai. Qualora lo stallo continuasse, l’Afghanistan rischierebbe una nuova guerra civile interclanica e tribale: nei giorni scorsi, uno dei signori della guerra che ancora controllano grandi aree del paese, il governatore della provincia di Balkh, Atta Mohammad Noor, ha minacciato la rivolta civile e la formazione di un governo parallelo, nel caso Abdullah venisse privato della vittoria con la frode.

La crisi attuale non poteva capitare in un momento peggiore, con il ritiro completo delle forze della NATO dall’Afghanistan alla fine del 2014. Dopo quella data dovrebbero restare nel paese solo 10.000 soldati americani, in appoggio all’esercito afgano, che si ridurranno della metà alla fine del 2015 per diventare 1.000 alla fine del 2016; tutto è però da definire dal momento che Karzai si è rifiutato di firmare l'accordo tecnico con la Casa Bianca, rimandandolo al nuovo presidente afgano.

Gli Stati Uniti e la comunità internazionale non possono però stare a guardare inattivi quanto succede a Kabul: Obama, nei giorni scorsi, ha usato la voce grossa con i due leader afgani, avvertendoli che l'Afghanistan avrebbe perso l'assistenza internazionale in caso di qualsiasi azione incostituzionale da parte loro.

Il segretario di Stato Kerry si era recato poco prima a Kabul dove aveva convinto Abdullah e Ghani ad accettare il risultato di un nuovo conteggio dei voti del ballottaggio e a far parte di un governo di unità nazionale. L'accordo è però stato di breve durata. La commissione elettorale indipendente, insieme agli esperti della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) e alla presenza dei rappresentanti dei due contendenti, ha completato il riconteggio delle schede che confermerebbe la vittoria di Ghani; Abdullah ha però boicottato i lavori degli scrutatori e ritirato i suoi uomini dai negoziati per la formazione di un governo di unità nazionale. Ghani, che già si sente il prossimo Capo dello Stato, ha allora respinto la proposta di nominare lo sconfitto alla carica di responsabile del Governo, una sorta di primo ministro, funzione che attualmente non esiste nel modello costituzionale afgano, presidenzialista.

L’Afghanistan avrebbe dovuto essere il piatto forte all’ultimo Vertice dell’Alleanza Atlantica che si è svolto in Galles, il 5 settembre; si sarebbe annunciato al mondo che con il termine per il ritiro delle truppe straniere in vista, le forze di sicurezza del paese erano in pieno controllo e in grado di contrastare le minacce provenienti dai talebani. La Nato avrebbe anche formalizzato il finanziamento di 4,1 miliardi dollari per le forze di sicurezza afghane. Al Vertice, però, in mancanza di un presidente eletto è intervenuto il ministro afgano della difesa e il problema dell’instabilità del paese è apparso in tutta la sua gravità, malgrado una generica lettera di buoni intenti, firmata da Ghani e Abdallah, fatta pervenire ai leader atlantici. Il finanziamento è stato per il momento congelato.

Se Abdallah e Ghani non troveranno presto un’intesa, sarà altrettanto difficile convincere i donatori internazionali, che finanziano il 50 per cento del bilancio statale afgano, a continuare a sostenere l'Afghanistan.

Non resta che augurarci che tredici anni di assistenza all’Afghanistan, migliaia di morti, decine anche gli Italiani, e miliardi di dollari non siano andati sprecati.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:48