Il Libano, prossimo   nella lista dell’Isis?

Lo sceicco druso Ramzi Alamuddin ha dichiarato che le nozze di sua figlia Amal con la star di Hollywood, George Clooney, sono un bene per il Medio Oriente e sui social network si sono scatenati dal Libano i fan della neo coppia: “Le strade sono bloccate, non abbiamo un presidente, il parlamento è paralizzato e il paese è sull’orlo del collasso. Ma grazie a Dio, Clooney è diventato un figlio del Libano”.

Le nozze di Venezia rischiano però di essere solo una bella fiaba per il Paese dei Cedri; mentre le forze della coalizione internazionale concentrano gli attacchi aerei contro le postazioni dell’Isis in Iraq e in Siria, si apre in Libano un pericoloso terzo fronte nella guerra contro gli jihadisti.

Il paese, già fragile di suo nell’equilibrio sempre precario tra diciotto gruppi e confessioni religiosi, è quello che più ha subito le conseguenze dei tre anni di guerra civile in Siria; pur essendo il più piccolo dei vicini, ospita oltre il 40 per cento degli sfollati siriani, oltre un milione e mezzo di disperati che si sono riversati da Beirut a Tripoli, ai quattro angoli del paese. Con una popolazione di poco meno di 4 milioni di cittadini, significa che circa uno su ogni tre persone che risiedono in Libano è oggi un siriano. Immaginiamoci i problemi che questo comporta in un paese che certo non brilla per efficienza della pubblica amministrazione o abbondanza di risorse su alloggi, servizi medici, acqua ed elettricità; e che dire delle scuole pubbliche dove si sono riversati migliaia di bambini siriani rendendo le aule sovraffollate. E inoltre i profughi siriani, per sopravvivere, sono disposti a lavorare per due soldi e così molti libanesi, di medio e basso reddito, si ritrovano all’improvviso fuori dal mercato del lavoro e non c’è articolo 18 o statuto dei lavoratori che tenga.

La comunità internazionale ha stanziato aiuti per venire incontro alle prime necessità dei profughi siriani - anche se ben al di sotto delle effettive esigenze - ma poco o nulla è stato destinato ai paesi ospitanti, primo tra tutti il Libano, che hanno dovuto far fronte con fondi statali all’emergenza sociale. Nel giugno del 2012, tutti i gruppi politici libanesi si erano impegnati in parlamento, con una mozione votata all’unanimità, a restare fuori dal pantano siriano; centinaia di giovani libanesi, in verità, erano stati comunque attratti dalla guerra civile nel paese “fratello” e si erano arruolati, chi nelle fila degli oppositori ad Assad, chi in quelle delle forze lealiste. Nel maggio del 2013, però, Hezbollah ha infranto il patto parlamentare, intervenendo in Siria con seimila combattenti a fianco delle truppe di Assad nella battaglia per la riconquista di Qusayr, cittadina di circa 40 mila abitanti che si trova a dieci chilometri dalla frontiera siro-libanese, sulla strada che porta a Hermel, nell’alta valle della Beqaa, da sempre roccaforte del movimento sciita. Lo sceicco Nasrallah, leader di Hezbollah, ha affermato di aver inviato i suoi uomini in Siria per proteggere i luoghi santi sciiti in pericolo dall’avanzata dei ribelli sunniti; in realtà le milizie sono intervenute per difendere la strada che passa da Qusayr verso il Libano, che è stata per anni usata da Damasco per far arrivare armi al movimento sciita filo-iraniano.

L’intervento di Hezbollah ha determinato a cascata il coinvolgimento sull’altro fronte di gruppi sunniti libanesi; le conseguenze si sono avute da Beirut a Tripoli. Negli ultimi dodici mesi il Libano è in ebollizione; nella capitale, nei quartieri sciiti della periferia meridionale sono scoppiate diverse autobombe e altrettante, in risposta, sono state fatte esplodere a Tripoli, dove forte è la componente sunnita contraria a Damasco e non passa giorno senza notizie di scontri interconfessionali in molte parti del paese.

La situazione più drammatica si è però verificata a inizi estate nel Libano nord-orientale, lungo il confine con la Siria. Nella città di Arsal, la popolazione libanese residente contava 35.000 persone che sono diventate più di 100.000 con l’arrivo degli sfollati siriani. In agosto, i militanti del Fronte filo Al Qaeda di Al Nusra, insieme ai jihadisti dell’Isis hanno conquistato Arsal, con la complicità di molti tra i profughi siriani già presenti. La risposta dell’esercito libanese non si è fatta attendere e dopo violenti scontri, le forze regolari hanno liberato la città: sul campo sono però rimasti 19 soldati uccisi e 38 sono stati catturati dai jihadisti. Da allora si è aperto un altro dramma terribile; tre soldati, uno sciita, un sunnita ed un cristiano, sono stati decapitati dagli islamisti che minacciano di uccidere gli altri 35 se l’esercito libanese non si ritirerà da Arsal. L’esercito è forse l’unica istituzione libanese, interconfessionale ed unitaria, amata e considerata da tutti i settori della popolazione; un recente sondaggio ha mostrato che il 70 per cento dei Libanesi apprezza i soldati in uniforme mentre bassissimo è il consenso verso la classe politica.

Sfruttando con cinismo e ferocia questo sentimento, gli islamisti hanno postato in rete le crude immagini televisive dei prigionieri in ostaggio mentre implorano le autorità libanesi, le proprie famiglie e la popolazione, di salvarli dalla decapitazione. I video hanno suscitato grande emozione popolare e raccolta di firme in solidarietà con i soldati catturati. La richiesta del fronte islamista è però inaccettabile per il governo di Beirut: il ritiro immediato da Arsal di tutti i soldati libanesi in cambio della liberazione degli ostaggi è fuori questione. Se il governo cedesse, sulla spinta popolare, si aprirebbe un pericolosissimo varco per gli estremisti islamici. Il governo libanese ha aderito alla coalizione internazionale contro l’Isis, ma ha già dichiarato che non potrà parteciperà ad azioni militari in Siria o in Iraq, perchè già fortemente impegnato in casa contro gli islamisti. Lo sforzo dell’Armée libanese ha però bisogno del sostegno internazionale; le armi e l’equipaggiamento in dotazione è vetusto ed insufficiente a combattere gli jihadisti dell’Isis. La comunità internazionale ha cominciato a mobilitarsi in sostegno dell’esercito libanese ma ancora in maniera insufficiente. Malgrado le riunione convocate dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, a Parigi in marzo, a Roma in luglio e pochi giorni fa a New York, e gli aiuti in armi dell’Arabia Saudita e della Francia, l’esercito libanese continua ad essere scarsamente armato ed equipaggiato. Il paese ha bisogno anche di aiuti per fronteggiare il milione e mezzo di sfollati siriani che vivono in condizioni disastrate sul proprio territorio.

Sarebbe una tragedia, e non solo locale, se la comunità internazionale, occupata nelle operazioni in Iraq e Siria, ignorasse il Libano, permettendo alle forze dell’Isis e del Fronte Al Nusra di prendere piede nel paese o anche consentendogli di provocare tensioni interconfessionali domestiche, con attentati ed altre azioni eversive, con lo scopo di scatenare una guerra civile.

Il Libano è alle nostre porte di casa, è il paese dove convivono uomini e donne di religioni e confessioni diverse, di cui oltre un milione e trecento mila cristiani; il mondo occidentale, l’Europa e l’Italia in prima fila, non possono permettersi di abbandonarlo proprio ora.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45