Il costo “dell’arricchimento” musulmano

La parola “rifugiato” è un termine giuridico, definito da molti trattati internazionali. Questi trattati hanno portato alla creazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e costituiscono la base dell’esistenza dell’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati. Tuttavia, il contenuto di questi trattati è in disaccordo con quanto fatto dall’Unhcr che ha cercato ampiamente di raggirare l’opinione pubblica europea sullo stato predominante del grande flusso migratorio che quest’anno si è riversato sul Vecchio continente.

Nessuno di questi accordi – la Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951; il Protocollo del 1967 relativo allo status di rifugiato o il Regolamento di Dublino dell’Unione Europea – garantisce il diritto allo status di profugo a coloro che attraversano diversi paesi sicuri e che varcano illegalmente più frontiere per rimanere nel migliore Stato sociale. Anche un legittimo profugo siriano che ora vive, ad esempio, in Turchia o in Libano, perde il proprio status di rifugiato se paga un trafficante di essere umani per arrivare in Europa. Secondo il diritto internazionale, quel rifugiato diventa in seguito un “richiedente asilo”. Solo quando la sua richiesta di asilo sarà vagliata e giudicata idonea da un organismo interno preposto, sarà di nuovo considerato un “rifugiato”.

Finora, i media di tutto il mondo hanno accolto con cieca fiducia quanto asserito falsamente dall’Unhcr. Coloro che hanno espresso la loro preoccupazione per il flusso incontrollato e senza limiti di musulmani in Europa – preoccupazioni fortemente convalidate dalle atrocità jihadiste commesse a Parigi il 13 novembre scorso – sono stati per lo più accusati di crudeltà verso i presunti rifugiati. La stampa, però, non è assolutamente la sola a sostenere che accogliere il flusso di migranti musulmani illegali sia un obbligo morale. Vengono anche tirate sistematicamente in ballo le argomentazioni economiche per legittimare gli ingenti flussi migratori di quest’anno, tenuto conto dell’invecchiamento della popolazione in tutte le nazioni europee. Esultante per i risultati del Global Monitoring Report pubblicato il mese scorso dalla Banca Mondiale (BM), dal titolo “Development Goals in an Era of Demographic Change” (“Obiettivi di sviluppo in un’era di cambiamenti demografici”), il presidente della BM, Jim Yong Kim, ha annunciato fiducioso che: con le giuste politiche, questa era di cambiamenti demografici può essere un motore di crescita economica. (...) Se i Paesi alle prese con l’invecchiamento della popolazione trovano i modi per far partecipare i migranti e i rifugiati alla loro economia, ci saranno benefici per tutti. Pur avendo una struttura di governance diversa da quella delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale fa tuttavia parte del sistema dell’Onu.

I termini “Obiettivi di sviluppo” presenti nel titolo del report della Banca Mondiale lo dicono. Essi si riferiscono al Millennium Development Goals, un programma globale elaborato sotto la guida dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, per trasformare l’Organizzazione delle Nazioni Unite da organismo con l’obiettivo principale di limitare la guerra internazionale a motore di “giustizia sociale” globale. Se i media, le Ong, gli attivisti motivati dal punto di vista etico e le celebrità hanno seguito tutti l’esempio dell’Unhcr, anche molte grandi istituzioni finanziarie hanno imitato quanto asserito dalla Banca Mondiale, ossia che il flusso migratorio in Europa dovrebbe essere accolto con favore.

Ad esempio, un colosso bancario mondiale come l’Hsbc ha previsto grossi vantaggi fiscali per i paesi dell’Unione europea, dopo un “periodo di adeguamento”. In una nota diffusa dall’istituto bancario l’8 ottobre e redatta da un team di economisti guidati da Fabio Balboni, si legge che: da un punto di vista economico, l’Europa ha bisogno di più lavoratori. È ben noto che la maggior parte dell’Europa sta rapidamente invecchiando. Ciò si traduce in un rallentamento della crescita e di entrate fiscali, e in un aumento della spesa pubblica attraverso le pensioni e l’assistenza sanitaria. L’Eurozona, in particolare, è in procinto di imbarcarsi in questa sfida demografica con una montagna di debiti. Il modo più semplice per supportare più pensionati è quello di avere più contribuenti. Il gruppo di ricerca macroeconomica europea dell’Hsbc è andato oltre nell’analizzare le cifre: su una popolazione in età lavorativa di 220 milioni di persone, stimiamo che oltre un milione di immigrati all’anno potrebbero rilanciare la crescita dell’Eurozona dello 0,2 per cento l’anno, e il Pil entro il 2015 potrebbe essere superiore di 300 miliardi di euro rispetto a quanto sarebbe stato altrimenti. Se ci vuole tempo per integrare gli immigrati nel mercato del lavoro, anche a breve termine, un aumento della spesa pubblica necessario per affrontare la crisi potrebbe sostenere la crescita. È problematico che queste previsioni vadano in controtendenza a tutti i dati disponibili. Anche in un Paese con una popolazione islamica radicata come la Gran Bretagna, la disoccupazione musulmana raggiunge il 50 per cento per gli uomini e il 75 per cento per le donne. Inoltre, nel Regno Unito i musulmani rappresentano il gruppo demografico con i tassi di natalità più alti. Insieme ai loro livelli di disoccupazione questi salvatori immaginari di un modello di Stato sociale europeo moribondo sono, come gruppo, i destinatari delle entrate dello Stato, anziché contribuenti di esso. Le successive generazioni di musulmani in tutta Europa, come Christopher Caldwell osservava nel 2009, non stanno normalizzando i tassi di natalità delle loro popolazioni ospiti, come fecero i precedenti gruppi di immigrati. Questa tendenza potrebbe essere certamente utile per aumentare la crescita della popolazione europea, ma mette anche in evidenza uno schema allarmante. Come di recente ha detto la baronessa Caroline Cox, “chiudere gli occhi” dinanzi alla poligamia in Gran Bretagna – e anche in Francia, Belgio e Germania – ha fatto sì che alcuni uomini musulmani abbiano 20 figli da diverse mogli, quasi sempre a carico dello Stato. Questo induce a pensare che le famiglie che nutrono idee fondamentaliste sono più prolifiche di quelle dei loro correligionari moderati.

Anche se il flusso demografico che sta travolgendo l’Europa fosse stato costituito interamente di veri richiedenti asilo siriani, che hanno tassi di natalità alquanto inferiori rispetto a quelli dei musulmani dell’Asia del Sud o dell’Africa, le notizie economiche sarebbero state peggiori. Un recente studio condotto in Danimarca ha rilevato che di tutti i gruppi di migranti arrivati nel Paese, i siriani avevano i livelli più bassi di disoccupazione rispetto a tutti (il 22,8 per cento). Un altro studio danese ha mostrato che di quei migranti musulmani giunti in Danimarca dicendo di essere profughi, uno su quattro è riuscito a trovare lavoro dopo dieci anni. Nonostante ci siano quattro milioni di persone costrette ad abbandonare la Siria a causa della guerra, e nonostante la disponibilità di documenti d’identità siriani contraffatti, di tutti quelli che sono entrati quest’anno in Europa, si stima che i siriani costituiscano solo il 20 per cento degli arrivi complessivi – che sono ancora in aumento.

Il gran numero di non siriani, che sono entrati negli Stati sociali europei da clandestini e vivono a spese dei contribuenti del continente, ha indotto un eurodeputato a condannare le quote di ripartizione dei migranti stabilite dall’Unione Europea. Finora, il piano relativo a tali quote è l’unica soluzione proposta pe risolvere il problema della presenza dell’ingente numero di migranti già in Europa. Si tratta, però, di una misura che “subappalta” la politica di immigrazione del continente ai trafficanti di esseri umani. A seguito degli attacchi jihadisti avvenuti a Parigi la settimana scorsa, lo schema delle quote predisposto dall’Ue, che obbliga gli Stati membri ad accettare i migranti illegali imposti dalle istituzioni dell’Unione europea, è in frantumi. Come previsto dal Gatestone, il governo polacco neo-eletto, dicendosi preoccupato per la sicurezza, si è unilateralmente rifiutato di aderire. Altri Paesi sembrano destinati a seguirne l’esempio, soprattutto dopo l’annuncio dato questa settimana dalla Grecia che uno dei kamikaze di Parigi, il 3 ottobre, era giunto come “profugo” sull’isola greca di Leros, a bordo di un’imbarcazione proveniente dalla Turchia.

La persistenza della politica delle quote obbligatorie in ogni vertice dell’Ue convocato quest’anno ha spinto alla riflessione la presidente della Lituania. Nel corso di una riunione del Consiglio Europeo a Bruxelles, il 23 settembre, Dalia Grybauskaitė ha parlato ai giornalisti della sua confusione. Ella ha detto che è solo da febbraio che i leader europei discutono delle misure “strategiche” necessarie per affrontare la questione dei migranti, al fine di arginare il crescente flusso che si riversa lungo le frontiere europee, cercando così di proteggere i propri confini.

Mentre, a detta della Grybauskaitė, le quote di ripartizione dei migranti tra i paesi membri in costante aumento pare siano sempre state in primo piano. Di conseguenza, il 22 settembre, la Commissione Europea è stata legittimata a ripartire il crescente numero di migranti provenienti dai paesi islamici tra tutti paesi del continente. A nulla è valso il “no” espresso dagli Stati membri dell’Ue.

Purtroppo, i costi finanziari – basati su fallate previsioni macroeconomiche avulse dalle realtà geopolitiche – hanno continuato ad accumularsi a danno della nazione la cui stabilità delle moneta comune europea è ancorata, ossia la Germania.

Inizialmente, il governo della Cancelliera Angela Merkel ha affermato che l’ondata di migranti che quest’anno si è riversata nel continente sarebbe costata alla Germania solo un extra di 5 miliardi di euro. Poi, una banca giapponese, la Mizuho, ha parlato di una previsione di 25 miliardi di euro in due anni. Anche tale stima, però, non è riuscita a spiegare il quasi sicuro raddoppio del numero dei migranti nel 2016. Le ultime previsioni – diffuse dall’Associazione delle città tedesche il 29 ottobre scorso – di 16 miliardi di euro per ogni anno a venire, hanno già frammentato l’unità in seno all’assediata leadership tedesca.

Data la diminuzione del numero di cittadini tedeschi in età lavorativa, i colossi dell’industria come Mercedes-Benz si sono uniti al coro di coloro che sono favorevoli all’arrivo dei flussi migratori in Europa. Ma anche se l’80 per cento dei migranti non è qualificato e il 20 per cento è analfabeta, essi possono essere impiegati nel settore industriale solo se riceveranno un’istruzione. Gli standard delle scuole tedesche sono già peggiorati e i funzionari scolastici ammettono che, come risposta pragmatica all’entità della pressione migratoria, gli standard dovranno essere abbassati. Spesso, l’incapacità dell’Europa di integrare i musulmani si attribuisce al razzismo autoctono. Ma questa accusa sembra ampiamente infondata in un continente le cui istituzioni hanno adottato la politica del multiculturalismo da decenni. L’esperienza della Germania è un esempio calzante. A quanto pare, i genitori di ragazzini che frequentano le scuole medie e che sono per lo più turchi, preferiscono iscrivere i loro figli nelle scuole frequentate soprattutto da ragazzi tedeschi. Questi genitori musulmani temono che ovunque ci siano alunni di origine turca che a stento acquisiscono le conoscenze di alfabetizzazione di base – in ogni lingua – a casa, il rendimento scolastico dei loro figli diminuirà.

Tuttavia, gli organismi governativi hanno ampiamente risposto all’invasione musulmana di quest’anno noleggiando traghetti e autobus per contribuire ad agevolarla. I responsabili della sicurezza delle frontiere dell’Ue descrivono queste incursioni come “flussi migratori” verso l’interno che dovrebbero essere “gestiti” nell’interesse del continente. Una spiegazione di questo cambiamento radicale nella politica in materia di frontiere, ora applicata dalle istituzioni dell’Ue, potrebbe risiedere in una dettagliata proposta pubblicata nel 2000 dalle Nazioni Unite. Essa auspicava la “sostituzione” della popolazione europea con i migranti musulmani proveniente dal Terzo Mondo.

Da allora, coloro che hanno speculato sulle inevitabili conseguenze sociali, culturali e di sicurezza della trasformazione demografica dell’Europa come delineata dalle Nazioni Unite – ad esempio, la scrittrice di origine egiziana Gisèle Littman, lo scrittore francese Renaud Camus e il saggista norvegese Peder Jensen – sono stati ampiamente tacciati di essere dei visionari farneticanti e bigotti.

Mettendo da parte tale diatriba, e come le politiche di ripopolamento involontario sembrano pressoché violare l’articolo 2, clausola (c), della stessa 1948 Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 per la prevenzione e la repressione del genocidio, alla base di questa visione vi è una premessa economica ignorata, vale a dire che importare in massa il mondo musulmano in Europa è reciprocamente vantaggioso.

Il ragionamento sembra essere che una volta che un Paese ha uno Stato sociale, la spesa sociale di questo Paese può essere mantenuta solo aumentando perennemente le dimensioni della sua popolazione – un’ipotesi economica con conseguenze di ampia portata ampiamente dimostrate in tutta Europa quest’anno.

Il problema maggiore sembra essere che le Nazioni Unite e l’Ue, queste burocrazie transnazionali gemelle dalla legittimità democratica molto limitata, hanno molte più cose in comune l’una con l’altra – nelle visioni e “soluzioni” che promuovono – di quanto ne abbiano con i desideri delle popolazioni che devono fare i conti con i risultati. I risultati del 2015 indicano come le facoltà critiche dei leader dell’Unione europea siano state accecate dal multiculturalismo. È questa una verità sgradita e caustica, visto con quale frequenza essi accusano i loro critici più severi e anche quelli dell’Islam – come ad esempio il leader del Partito olandese per la Libertà, Geert Wilders – di avere un concetto bidimensionale della fede musulmana, privo di sfumature.

Coloro che utilizzano la logica economica per attuare la trasformazione demografica dell’Europa non riescono a riconoscere le complessità dell’Islam: essi ignorano la rinascita fondamentalista che è in corso da oltre un secolo. Una caratteristica di questa crescente tendenza di interpretare alla lettera l’Islam è la convinzione – convalidata dalle sacre scritture – che i musulmani hanno diritto a beneficiare della produttività degli infedeli senza alzare un dito. Questa prospettiva pone la condotta autorizzata di gran parte dei migranti in un contesto imprevisto, ma molto necessario. Per decenni, l’immigrazione di massa dei musulmani in Europa è stata definita come un “arricchimento”. Gridare “all’islamofobia” non nega quanto sia praticamente impossibile pensare che un Paese venga effettivamente arricchito da essa.

È un’illusione pensare che col passare del tempo i principi religiosi dell’Islam si modereranno in qualche modo e scompariranno, per il solo fatto di essere in Europa, e questo soprattutto nelle comunità in cui i migranti musulmani sono più numerosi degli europei autoctoni. Alla fine, non è forse una triste ironia che la crescita della popolazione in Europa – con la sua responsabilità per l’emancipazione femminile – ora dipenda interamente dall’importare una cultura in cui le donne hanno molte meno libertà riguardo alla loro fertilità, e a molto altro?

Sembra anche paradossale che, nonostante la necessità dell’Europa di aumentare il numero delle donne che hanno figli, la stragrande maggioranza dei nuovi arrivi “a scopo di ripopolamento”, sono giovani maschi, spesso apertamente aggressivi. E vista tale disparità tra donne e uomini, come ci si può aspettare che questi uomini musulmani procreino? Le donne europee, come dimostrato da un certo numero di recenti episodi spiacevoli per lo più ignorati dai media più importanti, hanno buone ragioni per essere allarmate dalle realtà dell’attuale crisi e per la visione del futuro che i leader politici del continente hanno scelto per loro.

(*) George Igler è un analista politico che opera nella City di Londra ed è direttore del Discourse Institute

(**) Gatestone Institute

Traduzione a cura di Angelita La Spada

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:11