Daesh: cronologia di un conflitto

Approfittando del caos in Iraq e della guerra civile in Siria, Daesh ha conquistato un territorio situato tra questi due Paesi opponendosi alla frontiera, un’eredità del periodo postcoloniale, che li separa. Il presunto califfato è costituito da un ampio territorio, i suoi confini sono fluidi e Daesh non è in grado di esercitare un controllo omogeneo su di esso. Dalle zone controllate in modo capillare (che sono territori a maggioranza sunnita), Daesh concentra i suoi attacchi verso terre fertili e/o dotate di giacimenti di idrocarburi funzionali al suo sostentamento e alla sua espansione.

La genesi. Nel 2011 Al-Qaïda in Iraq (Aqi) decide di armarsi contro la brutale repressione del regime e di infiltrarsi. Il suo leader sunnita e iracheno Abou Bakr al-Baghdadi invia sul posto Abou Mohammad al-Joulani il quale, ritornato nella sua terra natia, crea un gruppo che organizza attentati suicidi diventando il movimento di guerriglia Jabhat al-Nosra (JaN), il “Fronte per la vittoria del popolo di Sham”.

Nel 2013 Al-Baghdadi annuncia che JaN è un prodotto di Aqi, tuttavia al-Joulani aspira a essere autonomo in Siria e chiede la direzione centrale di Al-Qaïda in Pakistan che lo supporta. Aqi decide di ritagliarsi un proprio feudo in Siria ribattezzandosi “Al-Qaïda in Iraq e in Levante (Aqil)” che assunse poi il nome di “Stato Islamico dell'Iraq e del Levante” (conosciuto anche come Isil o Isis o Daesh o Eiil). Daesh nel giugno 2014 si dedica al contrasto delle fazioni dell’opposizione armata siriana, tra cui JaN.

Nel 2012 Barak Obama ritira le truppe statunitensi dall’Iraq del Premier sciita Nouri al-Maliki. Molteplici sono le operazioni terroristiche lanciate da al-Baghdadi, il gruppo cresce rapidamente anche grazie al conflitto in Siria. Il 21 luglio 2012 vi è l’assalto alla prigione di Abou Ghraib con la liberazione di 500 detenuti. Cresce l’interesse per il “Levante”, cioè la Siria, oltre alle operazioni militari vi sono negoziazioni con le tribù sunnite in Siria e Iraq, umiliate dalle autorità di Damasco e dal Premier sciita al-Maliki. Questi sforzi per un riallineamento tribale spiegano il successo repentino di Daesh nel 2013. Le due importanti città siriane di Raqqa e Deir Ez-Zor cadono e l’emiro stabilisce la sua capitale a Raqqa. Il 30 dicembre 2013, grazie alla complicità delle tribù, vi è la conquista della città di Falloujah da parte di Daesh. Nel giugno del 2014 vi è l’espugnazione di Mossoul e il giorno 29 del medesimo mese il (presunto) “califfato” si insedia.

Il “califfato” rispecchia una mentalità condivisa da al-Baghdadi e non solo. Dopo la morte del profeta Maometto nel 632, le elite musulmane designano come suo successore il suo migliore amico e parente Abou Bakr che assunse il titolo di “khalifa” (successore) il quale, in qualità di “ombra di Dio in terra”, pretende un’obbedienza incondizionata. Questa obbedienza senza pari, come per bin Laden, ha fornito ad al-Baghdadi una autorità tale da esigere un giuramento di fedeltà da parte di al- Zawahiri, capo di Al-Qaïda il quale tuttavia rifiutò. Nonostante i due, per tale controversia, siano diventati acerrimi nemici, Daesh sfrutta ancora l’immagine di bin Laden e dei martiri, legittimando in questo modo il legame tra i due gruppi.

Margaux Schmit, nell’articolo “Daech – Syrie – Irak – Kurdistan irakien” pubblicato il 3 gennaio 2016 su Diploweb.com, evidenzia come sin dal 2014 il bottino di guerra di Daesh sia passato da circa 800 milioni a 2 miliardi di dollari di cui:

- un miliardo di dollari deriva dal petrolio siriano e iracheno; - 430 milioni di dollari derivano dalla depredazione delle banche di Mossoul e del Consiglio provinciale;

- 100 milioni di dollari scaturiscono dalla contraffazione di valuta e banconote deprezzate - 40 milioni di dollari derivano dal traffico di opere d’arte depredate dai musei iracheini.

Daesh, pertanto, è considerato da Margaux Schmit la più ricca organizzazione terroristica del globo. Esso capitalizza sulla situazione irachena, un frangente aggravato dall’intervento militare americano del 2003 e che ha avuto tra le sue conseguenze l’aver dato potere alla compagine sciita. Tale gruppo islamista funge da catalizzatore per un’antica aspirazione: il riallineamento della maggior parte delle popolazioni sunnite in Iraq e in Siria mediante la costituzione di uno Stato transfrontaliero, liberatore dall’umiliazione coloniale e dall’eretica idolatria degli Stati nazione. Tra gli obiettivi vi sarebbe anche la volontà di restituire dignità ai sunniti, inclusi gli ex quadri del partito Baath.

Alla lotta contro Daesh si aggiunge la strumentalizzazione del conflitto siriano divenuto in parte, sia in Iraq sia in Siria, una sorta di guerra per procura in cui, in un’ottica di breve periodo, gli aiuti al regime siriano sarebbero considerati da alcuni come un male necessario funzionale alla lotta contro il terrorismo islamista, prima di avviare un qualsiasi eventuale piano di riforme per una transazione democratica in quei territori. Tuttavia, se Bagdad ed Erbil si accordano su una logica politica di matrice occidentale, il regime siriano di Bachar al-Assad se ne distacca. Per l’Occidente sostenere il regime in Siria diviene pertanto impossibile, poiché anche il regime siriano rappresenta una minaccia per la libertà e la democrazia. Di conseguenza spetta ai ribelli dell’Armata Libera Siriana (Asl), priva di un autentico corpo politico, l’arduo compito di rovesciare il regime di B. al-Assad e di lottare contro Daesh. Entrambi questi obiettivi però, dipendono anche da alleanze internazionali diplomatiche e militari che coinvolgono necessariamente attori esterni.

Il numero di uomini di cui dispone Daesh è difficile da stimare a causa della sua costante evoluzione. Alcuni esperti stimano che la metà delle reclute non provenga dall’interno della regione, tuttavia il rapporto Onu 2015 stima 25000 combattenti stranieri tra i ranghi di Daesh. Secondo un rapporto di Soufangroup pubblicato nel 2015, l’ammontare dei “Foreign Fighters” oscillerebbe tra 27mila e 31mila. Il 3 agosto 2015, Airwars, un gruppo di monitoraggio investigativo formato da giornalisti, ha pubblicato una relazione secondo cui il numero dei civili uccisi dai bombardamenti aerei fatti dalla coalizione in Siria e in Iraq tra il 23 settembre 2014 e il 30 giugno 2015 oscillerebbe tra 459 a 1086. Il 3 novembre 2015 le Nazioni Unite contavano in Siria 4.29 milioni di rifugiati e 8 milioni profughi. In Iraq l’Unhcr ha recensito 1.9 milioni di profughi interni.

L’Occidente e le Monarchie del Golfo. La Coalizione nazionale siriana (Cns) fu fondata dagli occidentali anti-Assad nel dicembre 2012, durante la quarta conferenza degli “Amici del popolo siriano”. Cns è considerata da alcuni Paesi come il solo rappresentante del popolo siriano, tuttavia questo sostegno occidentale, tipo di sostanzialmente diplomatico, non ha mai consentito a Cns di erigersi a una reale alternativa rispetto al regime politico attuale. I finanziamenti e le forniture d’armi sono insufficienti e gli Usa hanno ufficialmente rifiutato l’opzione militare in seguito all’attacco con armi chimiche contro la periferia di Damasco avvenuto nell’agosto 2013.

Gli Stati Uniti, diversamente dalla strategia adottata in seguito agli attentanti dell’11 settembre 2001, puntano a una guerra a distanza basata su bombardamenti aerei. A Washington manca la volontà politica di inviare truppe di terra, limitandosi ad una strategia di contenimento bombardando le zone controllate da Daesh e supportando i gruppi ribelli moderati in Giordania. Diversamente dalla Francia, che nel settembre 2015 decide di ricorrere, in un’operazione in Medio Oriente, alla controversa nozione di “legittima difesa preventiva”, la politica “Pivot vers l’Asie” dell’Amministrazione Obama si focalizza sul Pacifico. La “legittima difesa preventiva” a differenza della classica legittima difesa (articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite) giustifica la risposta sulla base di una semplice minaccia e non di una effettiva e/o imminente aggressione armata. Nella fattispecie del caso siriano, in seguito a informazioni concernenti una potenziale minaccia d’attentato in Francia e senza sollecitare l’autorizzazione di Damasco, lo Stato francese si concede la possibilità di bombardare. Tali bombardamenti si collocano però in quadro del tutto diverso rispetto a quello dell’Iraq dove la Francia ha iniziato i bombardamenti il 19 settembre 2014 su richiesta di rinforzi da parte del governo iracheno nel contrasto contro Daesh.

Il conflitto siriano produce effetti anche su quello in Ucraina. Le autorità ucraine temono che la Russia sfrutti la crisi siriana per spostare l’attenzione dall’Ucraina e che l’Occidente baratti la cooperazione di Mosca in Siria con le sanzioni contro la Russia. Inoltre Riyad ha intravisto nella crisi siriana l’opportunità di indebolire l’Iran (a maggioranza sciita), principale alleato in Medio- Oriente del regime di Assad. Arabia Saudita e Qatar hanno pertanto incrementato le forniture di armi alle brigate dei ribelli e vi è stato anche una crescita delle donazioni private e dell’attivismo degli sceicchi salafiti in Kuwait. Gradualmente i finanziatori del Golfo hanno sostenuto dei gruppi sempre più estremisti come il fronte al-Nosra e la brigata Ahrar al-Sham, vicini ad al-Qaïda. Inoltre la Turchia, nemica del regime di B. al-Assad, ha fatto passare sul suo territorio le reclute di Daesh.

L’Oriente, l’alleanza sino-russa e la Turchia. Russia e Cina sono ambedue membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ed entrambi hanno osteggiato dei progetti di risoluzione ostile a Damasco. La Russia supporta l’armata siriana con motivazioni di diversa natura tra cui:

- quelle economiche, dato che il regime di Assad è un vecchio cliente dell’industria di difesa russa;

- quelle militari, poiché il porto di Tartus costituisce l’ultima base militare russa nel Mediterraneo;

- quelle ideologiche dell’autoritarismo (condiviso) e della figura del capo che rinforzano Vladimir Putin sulla scena nazionale e internazionale, dal momento che il Cremlino non apprezzò l’intervento Nato in Libia nel 2011 che terminò con il rovesciamento di Gheddafi un alleato della Russia.

Le operazioni russe del settembre 2015, all’interno del quadro del Centro di coordinamento antiterrorista sviluppato a Baghdad da Russia, Siria, Iraq e Iran in seguito ad una richiesta ufficiale del regime di Damasco, evidenziano la strategia di Putin che punta ufficialmente a difendere la sovranità degli Stati contro qualsiasi tipo di influenza esterna, al fine di garantire un’applicazione del diritto internazionale non a geometria variabile.

Infine, vi è la Turchia di Erdoğan che si sente minacciata dal messaggio ideologico jihadista che va ad intrecciarsi con la politica neo-ottomana del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo Akt. Questo partito tenta di strumentalizzare una situazione aggravata dall’attentato di Ankara del 10 ottobre 2015 al fine di beneficare di nuove votazioni per recuperare la sua maggioranza in Parlamento. Tuttavia Daesh minaccia gli alleati curdi iracheni di Ankara e costituisce un canale di rifornimento petrolifero a costi vantaggiosi per la Turchia. Le esazioni dei jihadisti incrementano il numero dei rifugiati in Turchia e impongono un’importante mobilitazione dell’esercito lungo la frontiera siriana, due conseguenze non prive di costi economici. Tuttavia la presenza di Daesh consente alla Turchia anche di occupare il rivale Iran e di indebolire Iraq e Siria, attori statali con cui ha difficili rapporti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:11