Sciiti contro Sunniti: per capirne di più

Dietro le violente proteste dell’Iran contro l’Arabia Saudita per l’impiccagione del leader religioso sciita Nimr Baqir al-Nimr, emerge di nuovo, più duro e acceso di sempre, lo storico confronto tra Sciiti e Sunniti per l’egemonia del mondo musulmano.

I fatti: sabato 2 gennaio, all’alba, in una prigione del regno tenuta segreta, viene impiccato Nimr Baqir al-Nimr. Lo sceicco era nato nel 1959 ad al- Awamiyah, nella provincia orientale dell’Arabia Saudita. Aveva abbracciato sin da giovane gli studi islamici e per circa dieci anni era vissuto e aveva studiato a Teheran, dove aveva stretto amicizia con diversi ayatollah iraniani e poi anche in Siria. Considerato uno dei più popolari religiosi sciiti dell’Arabia Saudita, specialmente tra i giovani, dal 2009 era ayatollah capo della grande moschea di al-Awamiyah. Nei suoi sermoni del venerdì aveva più volte mosso forti critiche verso la casa Reale dei Saud per la politica discriminatoria nei confronti della minoranza sciita e aveva chiesto libere elezioni in Arabia Saudita. Venne arrestato una prima volta nel 2006, poi ancora nel 2009 e infine nel luglio 2012, con l’accusa di sedizione e per aver invocato la secessione della provincia orientale dal regno. Durante la “primavera araba”, tra il 2011 e il 2012, Al Nimr era stato uno dei principali leader delle manifestazioni che avevano visto migliaia di cittadini occupare le piazze saudite per reclamare i diritti della minoranza sciita contro il regime di Riad.

Dal luglio 2012, il religioso è stato trattenuto in carcere, rinviato a processo davanti ad una corte speciale incaricata di giudicare “le interferenze straniere” negli affari del regno –che Amnesty International ha definito una farsa - e il 15 Ottobre 2014 è stato condannato a morte per impiccagione, con l’accusa di terrorismo, sedizione, disobbedienza al sovrano e porto illegale d’armi, sentenza confermata dalla corte d'appello nel marzo 2015; il 25 ottobre scorso la Corte Suprema per gli affari religiosi ha respinto il ricorso dei difensori di Al Nimr e vani sono stati gli appelli al Re Salman per la grazia, sottoscritti da migliaia di seguaci e cittadini sauditi. Il 2 gennaio la condanna è stata eseguita e le autorità hanno perfino negato la restituzione del corpo alla famiglia, per evitare manifestazioni di piazza e sommosse.

La notizia della morte di Al Nimr ha però scatenato la reazione di molti leaders internazionali e soprattutto delle comunità sciite in Iran, Bahrain, Iraq e Libano, per non parlare di quelle di alcune regioni dell'Arabia Saudita. A Teheran una folla inferocita ha preso d’assalto, bruciandoli, l’Ambasciata e il consolato saudita, dopo che la guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei aveva invocato la “vendetta divina” su Riad. Da Beirut il leader degli Hezbollah sciiti libanesi, Nasrallah, si era spinto anche oltre minacciando che il “sangue di Al Nimr perseguiterà la casa degli Al Saud (i regnanti dell’Arabia saudita) fino nell’aldilà”. Immediata la risposta del governo saudita che ha deciso di sospendere le relazioni diplomatiche con l’Iran, espellendo i diplomatici di Teheran e richiamando tutto il personale saudita dalla capitale iraniana.

Ma la morte di Al Nimr è solo un ennesimo tassello dell’ancestrale conflitto tra sciiti e sunniti, che ha lacerato il mondo islamico fin dalla sua nascita. La divisione emerse infatti alla morte del Profeta Maometto nel 632 in merito alla sua successione: alcuni ritenevano che il successore del Profeta fosse da scegliere tra i suoi discepoli, mentre altri –gli “shi at Ali”, dall’arabo i “partigiani di Ali” - affermavano che Maometto avesse scelto Ali, suo cugino e marito della figlia del Profeta, Fatima. Da lì le lotte intestine e tragiche che hanno segnato un solco, indelebile, tra le due fazioni dei sunniti e degli sciiti. Malgrado le distanze sulla successione al Profeta, sunniti e sciiti condividono molte credenze e pratiche, incluso i cinque pilastri dell'Islam tra cui il pellegrinaggio alla Mecca e le cinque preghiere quotidiane. L'Islam sciita ha un clero gerarchico molto strutturato, con gradi per i religiosi (Imam, Ayatollah, Grande Ayatollah), più di quello sunnita. Gli sciiti credono che il dodicesimo successore del profeta (il dodicesimo Imam), scomparso misteriosamente nel 784, debba tornare sulla terra per stabilire la giustizia e la pace prima del Giorno del Giudizio. I sunniti considerano i quattro successori del profeta come califfi "ben guidati" e non danno un significato specifico ai leader che sono venuti dopo. Gli sciiti menzionano Ali nella professione di fede (shahada); osservano alcune ricorrenze religiose, in particolare l'Ashura e l’Arbaeen, dedicate alla commemorazione del martirio dell'Imam Hussein (il figlio di Ali), che non sono celebrate dai sunniti. Dei quasi 1,6 miliardi di musulmani del mondo, circa il 90% è sunnita e il restante 10% è suddiviso tra i diversi rami della sciismo.

La distribuzione dei due rami dell'Islam è più equilibrata però in Medio Oriente, dove ci sono grandi comunità sciite in Iran, Iraq, Bahrain, in Siria, in Libano e in Yemen. L’Iran, dove il 90% dei 79 milioni di persone sono sciiti, è il più grande paese sciita del mondo. Negli altri paesi islamici, si contano minoranze sciite anche in Azerbaijan, Pakistan, Afghanistan e India. L’Arabia Saudita, che ospita le città di Mecca e Medina, sacre a tutti i musulmani, è considerato il centro dell'Islam sunnita e il suo monarca vanta il titolo di "custode delle due moschee ". La casa reale saudita, con l’esecuzione della condanna a morte dello sceicco Al Nimr, eseguita contemporaneamente a quella di una quarantina di jihadisti sunniti legati ad “Al Qaeda nella Penisola Arabica”, ha inteso mandare messaggi chiari in più direzioni: ai movimenti sunniti più radicali vicini al jihadismo fa sapere che i vecchi appoggi, i finanziamenti, le collusioni con alcuni settori dei servizi segreti del regno sono cosa del passato, che il regime intende interrompere per sempre. All’Occidente, ed in primis alla Casa Bianca, Riad vuole dimostrare l’attivo coinvolgimento nella lotta contro il terrorismo dopo le critiche per un certo lassismo saudita contro i movimenti jihadisti sunniti.

Agli sciiti ed in particolare all’Iran, l’avversario di sempre, il regno dei Saud vuole dimostrare di essere ancora potenza regionale e baluardo dei sunniti, nel Golfo e nel mondo musulmano. Ogni monarca che ha regnato a Riad ha fatto della politica anti-iraniana un elemento cardine in politica estera e Salman, diventato re nel gennaio dello scorso anno, è deciso a continuare su questa strada: nel marzo scorso il monarca ha ordinato l’intervento armato in Yemen contro le milizie sciite Huthi, sostenute da Teheran, ed ha affidato il comando delle operazioni a suo figlio, il trentenne principe Mohamed, nominato ministro della Difesa. Per molti osservatori la “minaccia” iraniana è diventata una paranoia per i Saud, che si è acuita dopo la firma dell'accordo nucleare. A Teheran, intanto, la dura reazione di condanna verso Riad dell’ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema religiosa, ha del tutto oscurato la figura del presidente iraniano Hassan Rouhani, molto più misurata. Rouhani ha definito totalmente ingiustificabile l’attacco contro l’ambasciata saudita.

Il 26 febbraio si terranno le elezioni per il nuovo Parlamento e gli ultraconservatori, alla luce della crisi con l’Arabia Saudita, potrebbero vincere di nuovo, mettendo in grandi difficoltà il presidente Rouhani. Le prossime settimane saranno cruciali per capire come si evolverà la crisi; certo è che la rinnovata tensione tra sauditi ed iraniani rischia seriamente di allontanare una soluzione pacifica del conflitto in Siria e della guerra nello Yemen, dove i due Paesi sostengono opposte fazioni. E anche sul petrolio Riad e Teheran sono ai ferri corti, con l’Arabia Saudita che mantiene gli attuali livelli di produzione, nonostante il basso prezzo al barile, per mettere in difficoltà l’industria petrolifera iraniana. Il 2016, nel Golfo, sembra non essere iniziato con i migliori auspici !

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04